Cinque attori girovaghi rinchiusi in un edificio per un gioco al massacro. Un altro capolavoro dal regista e musicista che ha ridato energia all’horror
Si chiama Robert Bartleh Cummings, ma gli appassionati di cinema e di musica lo conoscono con il suo nome d’arte, Rob Zombie. Musicista, regista, sceneggiatore, produttore, è un’icona dell’heavy metal e dell’horror. Il 12 gennaio 2017 compirà 52 anni. Il 23 gennaio 2016 il suo film più recente, 31, ha fatto la prima apparizione partecipando al Sundance Film Festival. Tredici anni dopo l’esordio deI regista del Massachusetts che nel 2003 firmò La casa dei 1000 corpi, iniziando a ideare una propria radicale visione dell’horror per restituire al genere una potenza sovversiva dimenticata, una visionarietà espansa, immagini dense di un alto tasso di crudeltà. Tra queste due opere si collocano gli altri capolavori di Rob Zombie: La casa del diavolo (2005), che forma una sorta di dittico insieme a La casa dei 1000 corpi; Halloween - The Beginning (2007) e Halloween II (2009), che rappresentano il suo originale contributo alla saga creata da John Carpenter nel 1978; The Haunted World of El Superbeasto (2009), il suo lavoro meno noto e più indefinibile, un film d’animazione basato su un suo fumetto per una scorribanda nei generi, grondante sesso e avventure dove ogni realismo viene sbriciolato; Le streghe di Salem (2012), incursione nella stregoneria fra tracce di grottesco surreale e di rituali ipnotici generati dall’ascolto di un disco. In tutti questi film c’è Sheri Moon Zombie, moglie di Rob dal 2002 e corpo imprescindibile di tutta la filmografia del marito.
Quelli di Rob Zombie sono film che ridanno senso all’horror, centralità al corpo, quello dell’immagine e quello dei personaggi, da indagare senza veline censorie o effetti digitali anestetizzanti, come capita da troppo tempo in questo genere (che fu e a tratti ancora è) straordinario e necessario. Con Zombie l’horror è tornato a respirare la libertà creativa degli anni Settanta e dintorni. Ci voleva un divoratore di film e musica, cineasta e musicista, come Rob Zombie per scoperchiare la superficie patinata di molto cinema, horror e non solo. Per penetrare, con sensibilità underground e immensa memoria filmica (dai fratelli Marx di Animal crackers al b-movie, dall’avanguardia, fin dentro l’immagine, intesa come corpo pulsante, sperimentata da un filmaker e artista totale come Stan Brakhage, al western, fino all’incontro carnale dell’hard con il macabro), il corpo dell’America e dell’horror, per togliergli la pelle, spogliarlo fino alle ossa, farlo sparire lasciando di esso tracce sparse di una decomposizione che finalmente si torna a sentire nel suo odore insostenibile, nella sua materia continuamente smembrata e ricomposta al fine di individuare nuove/antiche architetture al tempo stesso visionarie e realiste.
31 (ancora senza distribuzione italiana) rientra in questo percorso. E, fra i tanti pregi, ha quello di essere di una impressionante attualità. La guerra, rappresentata ricorrendo all’horror in tutta la sua fisicità, senza elementi soprannaturali, è infatti al centro del film. Lo dice, senza parafrasi, Father Murder (interpretato da Malcolm McDowell, in abiti aristocratici, parrucca compresa): “La guerra è un inferno”. Quest’uomo è l’organizzatore, insieme alle complici Sister Dragon e Sister Serpent, di un gioco al massacro chiamato “31” e messo in scena annualmente, la notte di Halloween, in un edificio dell’orrore chiamato Murderworld.
Cinque attori girovaghi di spettacoli horror, tre uomini e due donne, sono in viaggio con il loro camper per le strade di un’America deserta. Rapiti e portati a Murderworld, avranno dodici ore di tempo per salvarsi da un assedio senza fine. Una vera e propria guerra, dove il confine tra Bene e Male si sfalda. 31 diventa così anche una straordinaria metafora dei conflitti infiniti di oggi, delle persone imprigionate a Mosul, Aleppo o altrove. E una lezione di cinema. Rob Zombie frulla l’horror di Wes Craven, Tobe Hooper, Herschell Gordon Lewis, ma anche di Nosferatu, e gli ridà vita grazie al suo sguardo così personale e immediatamente riconoscibile.
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