Il pugile nasceva il 17 gennaio 1942 con il nome di Cassius Clay. Una leggenda sportiva e un attivista per i diritti umani. Il documentario Quando eravamo re sul match di Kinshasa vinse l’Oscar
“Qualunque fosse la sfida, per quanto irraggiungibile apparisse l’obiettivo, non ho mai permesso che qualcuno mi convincesse a dubitare di me stesso”. Parole di Muhammad Ali, già Cassius Clay prima della conversione all’Islam. Il più grande. Una leggenda non solo per il mondo della boxe, ma per l’impegno nella causa per la difesa dei diritti umani, che pagò anche con la prigione e con la revoca di un titolo per essersi rifiutato di arruolarsi e andare a combattere in Vietnam. Celebre, fra le tante sue frasi da scolpire, quella riguardante la sua posizione sul conflitto vietnamita: “Perché dovrei andare a combatterli? Non ho mai litigato con i Vietcong. Non mi hanno mai chiamato negro. I veri nemici della mia gente sono qui”. Ovvero negli Stati Uniti. Frase tanto più attuale alla luce di quel che potrebbe accadere con la nuova presidenza americana che si insedierà il 20 gennaio 2017 alla Casa Bianca.
Perché scriviamo di Muhammad Ali, il pugile “che vola come una farfalla e punge come un’ape?”. Non è stato un attore, nel senso più stretto del termine. Eppure la sua immagine, il suo corpo, la sua danza sul ring, oltre a brevi camei in film di finzione, sono state documentate da una moltitudine di documentari dal diverso approccio stilistico. Merita dunque ricordarne alcuni in un giorno speciale: il futuro campione nasceva a Louisville, nel Sud razzista degli Stati Uniti, il 17 gennaio 1942. Oggi, 17 gennaio 2017, avrebbe compiuto 75 anni. Morì, per colpa del morbo di Parkinson, in Arizona il 3 giugno 2016.
C’è un film che, per la sua qualità artistica oltre che per la sua rilevanza storica, svetta su tutti (e, guarda caso, in Italia è da anni fuori catalogo). Si tratta di Quando eravamo re (When We Were Kings, 1996), diretto da Leon Gast, documentarista di classe che ha in filmografia anche The Grateful Dead (1977), che documenta il concerto della band a San Francisco nel 1974, e Manny (2014), ritratto di un altro boxeur celebre, il filippino Manny Pacquiao. Quando eravamo re descrive l’evento memorabile, non solo sportivo, che ebbe luogo allo Stade Tata Rafaël di Kinshasa il 30 ottobre 1974 in Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), il match fra il trentaduenne Muhammad Ali e il ventiduenne George Foreman fortemente voluto dal manager Don King, che si affacciava allora sulla scena della boxe per poi divenirne il boss, e dal dittatore del paese africano Mobutu Sese Seko. Quell’incontro passò alla storia come “The Rumble in The Jungle” (La rissa nella giungla) e vide trionfare Ali che, in tal modo, si riprese il titolo dei pesi massimi. Gast fa rivivere non solo quel combattimento, ma pure la carriera di Muhammad Ali con materiali d’archivio dentro e fuori il ring. Un film emozionante che nel 1997 venne premiato con l’Oscar per il miglior documentario.
Nel cinema narrativo Muhammad Ali compare, nel ruolo di se stesso, in Io sono il più grande (1977), biografia romanzata di Tom Gries basata sul capolavoro letterario Il più grande, scritto dal pugile con Richard Durham e pubblicato nel 1976 (recentemente ristampato). Fra gli interpreti, un caratterista del calibro di Ernest Borgnine, Robert Duvall e, nel ruolo di Malcolm X, James Earl Jones. Ma Ali si vede anche in Una faccia piena di pugni (Requiem for a Heavyweight, 1962) di Ralph Nelson, dove il protagonista Luis Rivera (Anthony Quinn) perde un incontro con Cassius Clay (all’epoca quello era ancora il suo nome) avviandosi verso una drammatica fine della sua attività sportiva, e in Il guerriero del ring (1981) di George Bowers, remake del classico Anima e corpo (1947) di Robert Rossen. In entrambi i film Ali porta un lato documentaristico nelle storie raccontate.
Da non dimenticare, infine, due opere di finzione che lo celebrano degnamente: Alì (2001) di Michael Mann con Will Smith nei panni di “The Greatest”, e Muhammad Ali’s Greatest Fight (2013) di Stephen Frears, concentrato sulla battaglia legale tra l’avvocato del pugile (Ali non c’è nel film, nessuno lo interpreta, è una presenza manifestata dalla sua assenza fisica) e il governo americano seguita alla decisione di Ali di non andare in guerra.
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