Aquarius, l’impegno sociale e politico e Sonia Braga non salvano il film

Dagli anni Settanta a oggi la storia di Clara, donna libera e ostinata. L’attrice brasiliana trasmette il suo carisma. Il narcisismo di Kleber Mendonça Filho distrugge tutto

C’è (quasi) tutto quello che non ci piace, nel senso della forma, nella tanto apprezzata e sopravvalutata opera seconda Aquarius del regista brasiliano Kleber Mendonça Filho. Nulla da obiettare sulla forza politica del film, atto di denuncia tanto metaforico quanto concreto del degrado, della corruzione di una certa parte della società brasiliana, disposta a tutto, fino alle minacce, per gestire affari e potere. Ma un argomento, pur d’attualità (il film ha avuto l’anteprima al festival di Cannes 2016, dove era in gara per la palma d’oro, nel pieno della destabilizzazione politica seguita all’impeachment della presidente Dilma Rousseff e all’assunzione delle sue funzioni da parte del vice Michel Temer) e condivisibile, non è sufficiente a salvare, in questo caso, un film. Che è, e rimane, detestabile. Nonostante, insieme al valore del soggetto, vi sia il carisma d’attrice, ma talvolta anche troppo esibito, di Sonia Braga, icona del cinema e della cultura brasiliana.

Il film si chiama Aquarius, dal nome di un palazzo degli anni Quaranta del Novecento costruito in una posizione strategica, di fronte al lungomare di Recife (città che Mendonça Filho conosce bene, essendovi nato nel 1968), ma potrebbe chiamarsi Clara, o Dona Clara (rievocando la pellicola che nel 1976 consacrò Braga, Dona Flor e i suoi due mariti di Bruno Barreto), dal nome dell’anziana protagonista attorno alla quale ruotano tutte le altre storie di un film corale che avanza e arretra nel tempo, dagli anni Settanta a oggi, raccontando, attraverso gli eventi accaduti ai personaggi, fasi della Storia di un paese, dalla controcultura alla globalizzazione.

Clara, critico musicale in pensione, è l’ultima residente del palazzo, gli altri hanno ceduto alle sirene di una compagnia immobiliare decisa a fare di Aquarius un grattacielo di lusso. E proprio non ha intenzione di andarsene, di abbandonare quelle stanze dense di ricordi, di memoria, di dolori e di felicità e, ancora oggi, da lei resi vivi: ascoltando musica, bevendo, masturbandosi, ballando, mai rinnegando la propria libertà di idee e di azione. E quando la resistenza richiederà ulteriori energie, scoprendo nel palazzo inattese situazioni di violenza e degrado, Clara, con la complicità di altre figure, congegnerà una soluzione, quella che improvvisamente (non) chiude il film, tra il grottesco e lo humour nero.

Cosa non funziona, dunque, in Aquarius? Diviso in tre capitoli (I capelli, L’amore, Il cancro di Clara), ha proprio nello sguardo di Mendonça Filho, nei suoi espedienti di regia, il limite più evidente. Non si può costruire un film, da una parte, del tutto sciatto e, dall’altra, dentro tale piattezza, inserire per narcisismo zoom, panoramiche che si spostano veloci in un tragitto di andata e ritorno, dettagli poetici tra parole e canzoni, passato e presente, dissolvenze incrociate orrende.

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