Non solo horror. Quando il cinema entra all'obitorio e filma le autopsie

Nelle sale c'è Autopsy. Dal passato arrivano i film di Tsukamoto, Carpenter, Larrain e il capolavoro assoluto del cineasta d'avanguardia Stan Brakhage

C'è nelle sale l'horror Autopsy del regista norvegese André Ovredal (che reca il titolo originale di The Autopsy of Jane Doe, ovvero l'autopsia di una sconosciuta, essendo John - o al femminile Jane - Doe il nome convenuto per darlo a persone di cui non si conoscono le generalità), girato in un obitorio. Luogo oscuro, misterioso, soprattutto le stanze adibite alle autopsie. Un set che ritroviamo in varie età della storia del cinema e della serialità televisiva. Dalle descrizioni di maniera, indolori, talvolta mantenute intrecciando macabro e humour, si allontanano alcuni preziosi titoli (come Vital di Tsukamoto Shinya, Post Mortem di Pablo Larrain, Body Bags - Corpi estranei dove in un obitorio il medico legale interpretato da John Carpenter racconta le tre storie che compongono il film). E tra questi ce n'è uno che rimarrà ineguagliabile, un astro che continua a splendere e a obbligarci, con grande piacere e disturbo, a non distogliere lo sguardo, a vedere quello che non vorremmo vedere, a imparare a vedere di nuovo (metafora più ampia della necessità dell'esserci, del tenere bene gli occhi aperti ovunque). Si tratta di The Act of Seeing With One's Own Eyes e lo realizzò nel 1971 uno dei pilastri del cinema d'avanguardia americano, Stan Brakhage, autore in oltre cinquant'anni di lavoro e quasi quattrocento film di ogni durata e formato di una ricerca incessante inscritta nell'esperienza unica del fare e del vivere cinema.

Nel 1971, il filmaker - nato a Kansas City nel 1933 e morto a Victoria, in Canada, nel 2003 - visitò l'obitorio di Pittsburgh per filmare il lavoro dei medici sui cadaveri. Ma lo fece con uno stile unico, inimitabile, impedendo appunto allo spettatore di non vedere. Tutto è chiaro, fin dal titolo, che assume un doppio, profondo, pratico e teorico, significato. L'atto di vedere con i propri occhi, o di vedere chiaramente, è sia una dichiarazione d'intenti artistica sia il significato greco della parola autopsia. Brakhage filmò con una macchina da presa 16mm senza sonoro sincronizzato. Il film, della durata di 32 minuti, è calato nel silenzio assoluto, è straordinario cinema muto fuori dal suo tempo. Non c'è nient'altro che lo sguardo espanso, privo di margini, sfuggente alla geometria delle inquadrature, di un autore che trasforma quei corpi senza vita, dilaniati, i loro organi sezionati, in bellezza estrema, in forme d'arte scolpite nella carne, nelle ossa, nel sangue. Brakhage ci rende partecipi, anche con il rifiuto, di un'esperienza che allarga i sensi. The Act of Seeing With One's Own Eyes è un film ipnotico, lisergico, che non vorresti vedere, che poi non vorresti rivedere mai più, eppure ogni volta che lo incontri ti chiama a sé, è impossibile resistergli, in un festival o in televisione (coraggiosamente mandato in onda alcune volte in piena notte da Enrico Ghezzi in Fuori orario) o in dvd (è contenuto in uno dei due cofanetti editati con la solita impareggiabile cura dall'americana Criterion, ma senza restrizioni di "regione").