Nel segno del miglior cinema indipendente americano, Matt Ross racconta la radicale esperienza di formazione di una famiglia. Viggo Mortensen è un padre davvero speciale
Attore, fin dall’adolescenza e poi in età adulta impegnato soprattutto a interpretare ruoli di personaggi di serie televisive, ma figurando anche in titoli per il cinema di rilievo (Face/Off di John Woo, The Aviator di Martin Scorsese, Good Night, and Good Luck. di George Clooney), lo statunitense Matt Ross, dopo i due cortometraggi The Language of Love (1997) e Human Resources (2009), ha realizzato il suo primo lungometraggio da regista nel 2012, 28 Hotel Rooms, dove indaga le sfumature sessuali e psicologiche che esplodono fra una donna e un uomo (entrambi senza nome) nel corso degli anni e dei loro incontri in camere d’albergo degli Stati Uniti, che tutti e due attraversano per lavoro. Presentato alla trentesima edizione del Torino Film Festival, il film è poi rimasto inedito in Italia, mai distribuito né nelle sale né in dvd.
Quattro anni più tardi, Ross è riapparso sugli schermi con la sua opera seconda, confermando le doti già manifestate in 28 Hotel Rooms. Un film, Captain Fantastic, che ha avuto una visibilità ben maggiore, sia a livello di festival (prima Sundance, quindi Cannes dove è stato premiato nella sezione “Un certain regard” per la migliore regia) sia di distribuzione (anche se negli Stati Uniti è uscito limited, ovvero in poche sale). In Italia ha vinto il premio del pubblico (vale a dire quello principale, non essendoci una giuria di addetti ai lavori) dell’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma ed è stato distribuito il 7 dicembre 2016.
Non stupisce la circolazione limitata negli Stati Uniti in quanto il film di Matt Ross è un’opera indipendente, nonostante la presenza di un attore del calibro di Viggo Mortensen, è la preziosa testimonianza di un cinema indie americano vero, radicato nei suoi elementi più solidi, sfuggente a congegni modaioli, abitato da uno sguardo sinceramente teso a condividere l’esperienza di formazione compiuta dai personaggi. Captain Fantastic è un film che scalda il cuore, che fa bene all’anima, che impedisce al cervello di atrofizzarsi, che inneggia alla vita, che ingaggia una lotta rivoluzionaria per rendere possibile un altro pensiero e concreto un diverso modo di agire, tentando, azione dopo azione quotidiana, di scardinare le forme del potere globalizzato.
Ben Cash (Mortensen, impareggiabile nel far coesistere prestanza fisica e versatilità del volto) e la moglie Leslie - ricoverata per problemi psichici e suicida (Trin Miller), che nel film non appare mai nel tempo presente, ma solo quando il marito la pensa, in immagini fragili eppure persistenti come quelle della memoria - negli ultimi dieci anni hanno dato ai sei figli, ai quali hanno anche riservato dei nomi unici, un’educazione speciale. Li hanno fatti vivere con loro in una foresta, addestrandoli a sopravvivere, a essere indipendenti dalla società nella maniera più radicale, a cacciare; li hanno istruiti senza testi scolastici ma, fin da piccoli, con letture alte e complesse, insegnando a quei bambini e ragazzi, cresciuti da un certo punto della loro vita o da sempre in quell’ambiente, a imparare, anche a memoria, e a riflettere, per essere sempre in condizione di esprimere con parole proprie un concetto appreso.
Questo è il soggetto di Captain Fantastic. Attorno a esso, Matt Ross costruisce punti di fuga e di ritorno, complicità e divergenze, inventa soluzioni per far uscire i personaggi da situazioni complicate, evita ovunque qualsiasi traccia di moralismo, nella sceneggiatura come nella regia, splendidamente fluida, lieve, anche quando deve documentare momenti altamente drammatici. Lo sguardo di Ross si specchia in quello di Ben, e di Leslie, e lo riceve. Rende naturale e credibile ogni gesto. Bisogna cogliere non solo in ogni scena, ogni immagine, ma in ogni poro delle inquadrature le infinite sfumature, la moltitudine di strati esistenti, la gamma di gesti e sguardi così intimi, così maestosi che non sembrano recitati, non sembrano filmati. Bisogna, in un film che è allegoria del mondo, citando Noam Chomsky, punto di riferimento di Ben e Leslie e dei ragazzi, “dare una speranza alla speranza”.