Il cineasta olandese sarà presidente della giuria del festival di Berlino. Il suo ultimo film Elle è candidato agli Oscar per l’interpretazione di Isabelle Huppert
Quella di Paul Verhoeven è una filmografia dalle molte vite, ma sempre nel segno della carne, delle ferite su di essa, della mutazione dei corpi spinti in una costante, febbrile, pericolosa e necessaria conoscenza di sé. Per Verhoeven (presidente della giuria del festival di Berlino 2017), ci sono stati i lunghi anni di lavoro nel suo paese d’origine, l’Olanda, prima come regista di cortometraggi e film per la televisione, negli anni Sessanta, poi dal 1971 come autore di lungometraggi espressamente immersi nell’esplorazione del desiderio e del sesso. Un argomento, un’ossessione, ancora oggi in primo piano. A 78 anni, Verhoeven ha girato, mostrandosi in gran forma, Elle, presentato in concorso al festival di Cannes 2016 e candidato all’Oscar 2017 per la migliore attrice protagonista, Isabelle Huppert. Si tratta di un filo rosso che unisce Elle a quei primi film olandesi e ai titoli, alcuni in particolare, del suo successivo periodo americano. Opere che hanno prodotto scandalo, per le quali Verhoeven è stato accusato di misoginia, omofobia, blasfemia, pensiero reazionario. Perché siamo di fronte al cinema di un autore per nulla politicamente corretto abitato da corpi in lotta che, al termine di un’esperienza, non saranno mai più gli stessi. Ovunque e senza tregua.
Ci sono le prostitute del quartiere a luci rosse di Amsterdam nell’opera prima per il cinema Gli strani amori di quelle signore (1971). C’è la coppia, sposata e tormentata, di Fiore di carne (1973), che vede per la prima volta Rutger Hauer recitare in un film di Verhoeven. C’è la trasformazione di una ragazza povera in prostituta per necessità e quindi in scrittrice in Kitty Tippel (1975), che vede di nuovo insieme Hauer e Monique van de Ven. E ci sono i due lavori che più sono stati bersagliati da opposizioni tematiche e divieti, vale a dire Spetters (1980) e Quarto uomo (1983), in cui esplodono tensioni sessuali etero e gay e l’ossessione per la religione cattolica. Rutger Hauer continua a essere ben presente nel cinema di Verhoeven e dopo l’idolo della banda di motociclisti di Spetters, torna a ruoli di rilievo in Soldato d’Orange, del 1977, e L’amore e il sangue, del 1985, ambientati rispettivamente durante la seconda guerra mondiale e nel medio evo. Quest’ultimo si colloca come film cerniera tra il periodo olandese e quello hollywoodiano; film il cui titolo originale, Flesh+Blood, riassume la densità, la sostanza materica ossessivamente ricercata dal regista, anche là dove si nasconde negli interstizi di una patina erotica, come in Basic Instinct, 1992, e soprattutto in quel capolavoro teorico sul corpo inteso come visione irraggiungibile che è Showgirls, 1995.
Appena sbarcato negli Stati Uniti Verhoeven, però, cerca altre strade e generi per ribadire la centralità del corpo nella sua opera. Nascono così due pietre miliari della fantascienza, RoboCop (1987), nel pieno della discussione sul cyborg, e Atto di forza (1990), ispirato a un racconto di Philip K. Dick con Arnold Schwarzenegger in vacanza virtuale su Marte e Sharon Stone. Passano due anni e Stone, con Michael Douglas, sarà al centro del thriller erotico infuocato/ghiacciato Basic Instinct. La carriera di Paul Verhoeven avanza nelle apparenti contraddizioni, così, appena terminato Showgirls, con set Las Vegas e i suoi locali di spogliarello, eccolo tornare alla fantascienza, con situazioni differenti da Atto di forza, con un film difficile da digerire, Starship Troopers - Fanteria dello spazio (1997).
Ma Verhoeven, regista infaticabile e sempre pieno di sorprese, cambia ancora registro e piazza tre colpi da maestro. L’uomo nell’ombra è del 2000. Ancora fantascienza. Ancora un’altra visione sul genere. E un riavvicinamento del cineasta all’Europa. Qui Verhoeven lavora sul corpo e sulla sua sparizione, fino all’invisibilità. Black Book, del 2006, è uno dei suoi film a più alto tasso carnale nel descrivere la storia di una soubrette, ebrea, costretta nel 1944 a fuggire dalla Germania nazista per rifugiarsi in Olanda. Scampata a un eccidio dove anche la sua famiglia viene sterminata, assume una nuova identità per vendicarsi infiltrandosi fra gli alti ufficiali tedeschi. All’interno di tali fatti, Verhoeven fa scivolare il film nel musical, nel film erotico, di spionaggio, di guerra, nel melodramma che si nutre intimamente del cinema di Rainer Werner Fassbinder. Generi che affiorano in tutta la loro potenza e seduzione esplosiva in ogni inquadratura che odora di sesso e di morte, di sangue e desiderio, di vendetta e manipolazione. La sintesi del pensiero e dello sguardo di un cineasta immenso che con Black Book si è riposizionato nel Vecchio Continente. E in cerca di ulteriori idee spiazzanti, per non venir meno alla sua fama di regista controverso, conturbante e innovativo, eccolo firmare nel 2012 un film lungo poco meno di un’ora, Steekspel, di produzione olandese, il cui progetto è nato sul web coinvolgendo nella realizzazione, come in un work in progress, chiunque desiderasse intervenire e rendersi complice di quest’avventura. Poi, Verhoeven è intervenuto come un dottor Frankentein scomponendo e ricomponendo i materiali ricevuti per dare forma compiuta all’esperimento. Ed eccoci a Elle e al suo passaggio in Francia, anche per quanto concerne la fonte letteraria d’ispirazione, il romanzo di Philippe Djian Oh… del 2012. Un film, tra i migliori del 2016, che gioca su più piani della memoria e su un’attrazione sado-maso nata da una violenza. Ancora una volta i corpi, qui quello di Isabelle Huppert, diventano luoghi di esperienze totali, da cui non si può tornare indietro. Ne riparleremo.