Pedro Almodóvar, ecco chi è il presidente della giuria del prossimo festival di Cannes

Commedia e melodramma, humour dissacrante e personaggi dalle complesse identità sessuali popolano il cinema del celebre regista spagnolo, dagli esordi negli anni Settanta a Julieta

Pedro Almodóvar sarà il presidente della giuria del settantesimo festival di Cannes, in programma dal 17 al 28 maggio 2017. Quello del regista spagnolo è un cinema inscritto nelle relazioni pericolose. Fin dalla metà degli anni Settanta, quando Almodóvar esordisce con una serie di cortometraggi per poi realizzare nel 1978 il primo lungometraggio Folle… folle… fólleme Tim!, oggetto raro che descrive con toni corrosivi la passione tra una donna e il fidanzato cieco, e la cecità che colpirà anche lei. La commedia sancisce anche l’inizio della collaborazione tra Almodóvar e Carmen Maura. Due anni più tardi, Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio lancia il cineasta trentunenne oltre i confini del suo paese, sempre più verso la notorietà internazionale. I suoi film viaggiano nei festival e trovano spazio anche in un mercato ostico come quello italiano. Dalla nicchia delle sale d’essai i film di Almodóvar raggiungono i cinema commerciali. Un ampio pubblico fa la conoscenza di una graffiante filmografia (nata proprio al termine della dittatura di Francisco Franco) nella quale convivono commedia, melodramma, grottesco, humour nero, identità sessuali mutanti, satira alle istituzioni della famiglia e della chiesa, e un’immensa passione per il cinema.

Ecco Labirinto di passioni (1982), con Antonio Banderas, per la prima volta in un film di Almodóvar, nel ruolo del terrorista islamico e gay Sadec (poi, nel 1987, sarà nel cast del delirante capolavoro almodóvariano La legge del desiderio). Ecco le suore lesbiche e cocainomani de L’indiscreto fascino del peccato (1983). Ecco quella meravigliosa commedia nera che è Matador (1986) e la commedia degli equivoci in stile spalstick, tra inganni e menzogne che producono verità, rappresentata da Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), uno dei più grandi successi di Almodóvar. E, preceduti da Legami! (1989), i film degli anni Novanta, ancora più liberi nel ri-mettere in gioco le ossessioni presenti fin dal debutto e quella maniacale composizione cromatica rintracciabile in tutta l’opera di questo autore nato nel 1949. Nascono testi imprescindibili come Tacchi a spillo (1991), con Miguel Bosé, Kika - Un corpo in prestito (1993), riflessione sul senso del guardare e del filmare, Il fiore del mio segreto (1995), contenente elementi importanti che avranno spazio in Carne tremula (1997) e Tutto su mia madre (1999), film che chiude quel decennio memorabile.

Parla con lei (2002) è il primo film del nuovo millennio, e Almodóvar fornisce un ulteriore lavoro di alto livello nel tratteggiare complesse relazioni sentimentali. Se La mala educación (2004) non convince nel portare sullo schermo gli abusi sessuali compiuti da sacerdoti, altri film degli anni Zero e Dieci del nuovo secolo restituiscono al cinema di Almodóvar tutta la sua visionarietà. Si pensi a Gli abbracci spezzati (2009), film sull’amore per il cinema dove la poetica del regista si manifesta nella sua forma più essenziale, alla commedia ambientata quasi del tutto su un aereo Gli amanti passeggeri (2013), e a Julieta (2016), ovvero l’incontro tra la scrittura compatta, tersa, che mette in relazione presente e passato, della scrittrice canadese, premio Nobel per la letteratura nel 2013, Alice Munro (il film è tratto da tre racconti inseriti nella raccolta In fuga e uniti dalla presenza di un unico personaggio, Juliet), perfezionista del racconto breve abitato soprattutto da figure femminili, e il cinema popolato di memorabili donne dai destini labirintici di Almodóvar. Non c’è l’umorismo tagliente del regista, in Julieta, ma un melodramma raggelato di esemplare intensità.

Le relazioni pericolose e il percorso denso e coerente attuato da Almodóvar per rappresentarle si rinnovano di film in film. Almodóvar è rigoroso nel documentare e catalogare i caratteri e le ossessioni di personaggi sempre sul bordo di una mutazione, interiore e fisica. E lo fa con sguardo sempre più limpidamente classico, dopo quello grezzo e scalpitante degli esordi, nella messa in forma di quelle relazioni, pericolose e magiche, così vere e naturali proprio perché scaturite dalle scene madri e dal melodramma, dall'umorismo carico e dai colori che producono vertigine agli occhi e al cuore (gli occhi e il cuore sono organi sovversivi, da trapiantare, da usare come soggetto iconografico, produttori di aritmie, arresti, cecità). Quello di Almodóvar è un cinema che allarga i sensi, che disegna cortocircuiti mentali e fisici, che penetra il cinema del passato, certe sue schegge, ricollocandolo nel presente di una filmografia dove la citazione - così evidente, spudorata - perde il suo senso originario per divenire parte integrante del testo, spazio di dialogo fra immagini che, come i personaggi, lottano e si amano.

Almodóvar dice sempre dove sta (con) il suo cinema. Non bluffa. E non fa neppure ricorso a sterili giochi cinefili. Non c'è nulla di superfluo in quello che viene mostrato. C'è il senso di un cinema che nasce dalla necessità e, sempre più, dal piacere di raccontare, di essere politico per accenni e di praticare una politica dei sentimenti tra le più profonde del cinema contemporaneo