Fish Tank, un’adolescente combatte per il suo sogno

Nel suo secondo lungometraggio e in tutto il suo cinema la regista inglese Andrea Arnold racconta vibranti personaggi femminili. Come in una danza vertiginosa

“A sorreggerla, è una semplice certezza: la certezza di non aver bisogno d’altro se non scendere in quelle strade, e dissolversi in esse, lasciarsi assorbire dai loro ritmi e, con naturalezza, diventare un frammento qualsiasi di mondo”.

Nella frase finale del romanzo L’insegnante di pianoforte di Janice Y.K. Lee è riassunto, come meglio non si potrebbe, il cinema, il suo senso, la sua poetica, della cineasta inglese Andrea Arnold. Autrice finora di quattro lungometraggi tra i migliori degli ultimi dieci anni (Red Road, 2006; Fish Tank, 2009, disponibile in streaming gratis senza registrazione su PopcornTv; Cime tempestose, 2011, unico suo lavoro di ambientazione non contemporanea; American Honey, 2016, girato negli Stati Uniti) e di una manciata di corti altrettanto indimenticabili (Milk, 1998; Dog, 2001; il fondamentale Wasp, 2003, che dei futuri lungometraggi appare come un capitolo introduttivo).

Nel cinema della cinquantacinquenne regista e attrice siamo immersi in una lunga, sensuale, desiderante soggettiva-oggettiva con la quale Arnold ci porta a contatto con personaggi femminili combattenti che determinano la loro vita, il loro futuro con l’ostinazione di una ricerca profonda che coinvolge il corpo e la mente nella messa a fuoco, dolorosa e imprescindibile, di episodi del passato e del presente.

Pur ambientando alcune delle storie in periferie urbane note a certo cinema inglese dell’impegno sociale, Andrea Arnold è figura unica nel cinema britannico di oggi, sfugge a ogni tentazione riduttivamente tematica lasciando che siano la sensibilità dello sguardo e della macchina da presa, usata come un pennello per dipingere quadri di un ipotetico, infinito piano sequenza, a penetrare spazi e corpi, suggerendo, mostrando, celando. Personaggi femminili giovani ma di età diverse che Arnold pedina nella loro quotidianità in attesa di una svolta, di un punto di rottura, di un gesto che ne modifichi il percorso, che renda nuovo - nel senso di una prima volta che, con la memoria delle cose vissute, tutto fa ricominciare - il loro scendere in strada, il loro ri-incamminarsi all’interno e all’esterno di quartieri periferici britannici fino a quel momento abitati (in Red Road, in Fish Tank) o attraversando con un camper le assolate distese statunitensi (in American Honey).

Arnold lascia sempre finali aperti, l’idea e lo stile del suo cinema non possono rinchiudere le storie e le vite dei personaggi in una conclusione tradizionale. C’è, sempre, nel suo cinema, la necessità di liberare le protagoniste. E di farlo con quella spontaneità che caratterizza in ogni fotogramma le sue opere e che spiega così nitidamente: “A me piace lavorare con naturalezza. Se una scena sta venendo bene l’idea è continuare a girare spostandosi attraverso il set”. Arnold costruisce in tal modo immagini dove il suo sguardo è al tempo stesso addosso ai corpi che filma e a distanza da essi, parziale nella sua complice vicinanza, e dunque nella condizione di dover continuamente scegliere cosa mostrare, cosa la sua camera a mano silenziosa privilegiare, e totale perché quel che separa i corpi filmati e lo sguardo di chi filma apre il testo, ogni sua inquadratura, a una pluralità di segni rivelatori di ulteriori dettagli per comporre, come da tanti monitor accesi sul film, uno stratificato mosaico delle vite raccontate. Tocca con lo sguardo i corpi.

Fish Tank (premio della giuria al festival di Cannes 2009, miglior film ai premi Bafta 2010) ha per set la regione dell’Essex, dove vive l’adolescente Mia (la sorprendente diciassettenne Katie Jarvis, che non aveva mai recitato), il “pesce combattente” del titolo. Il suo sogno è diventare una danzatrice e affrancarsi così dalla difficile situazione familiare (la madre Joanne, la sorellina Tyler, l’amico e fidanzato Billy, e l’amante di Joanne, Connor, e complice-amante di Mia, interpretato da Michael Fassbender). Arnold fa compiere ai personaggi un percorso di conoscenza che porta verso un altrove rigenerante, ma senza la cancellazione di quel che è stato. Fish Tank, e tutto il cinema della regista, è pregno di fisicità (si pensi a Mia e al cavallo che cerca più volte di liberare dalla schiavitù, al suo piede ferito durante la gita al fiume, a lei che balla, solitaria - per la macchina da presa, nell’appartamento disabitato dove si isola per provare le canzoni, o per un uomo, Connor, davanti a lui sul divano di casa - o insieme alla madre e alla sorella, tutte e tre abbracciate, come struggente momento di commiato dalla famiglia, senza traccia di retorica).

Il cinema di Andrea Arnold è un’esplosiva danza di corpi. Che ha in American Honey la sua cima tempestosa e in Fish Tank un’esemplare anticipazione di quella vertigine che coinvolge tutti i sensi.