Al festival di Berlino il film di Fatih Akin Goodbye Berlin. Ritratto del regista turco-tedesco Orso d’oro nel 2004 con La sposa turca
Attualmente al lavoro sul suo nuovo lungometraggio Aus dem Nichts, Fatih Akin ha girato nel 2016 Tschick (Goodbye Berlin), già uscito nelle sale tedesche e martedì 13 febbraio 2017 riproposto al festival di Berlino nella sezione LOLA at Berlinale.
Nato ad Amburgo nel 1973 da genitori turchi, Fatih Akin è stato esponente di rilievo della generazione di registi turco-tedeschi degli anni Novanta per diventare sempre più un cineasta tedesco e internazionale molto amato dai principali festival di cinema (in Italia un percorso simile lo ha compiuto Ferzan Özpetek). Autore dalla filmografia variabile per intensità filmica, Akin è a Berlino con un road movie che ha per protagonisti due adolescenti. In assenza dei genitori, il quattordicenne Maik trascorre le vacanze estive annoiato e solo nella villa di famiglia. Nel momento in cui appare l’immigrato russo Tschick, ragazzo ribelle, le sue giornate cambiano. Tschick ruba una macchina e coinvolge Maik in un viaggio inatteso e indimenticabile.
In Tschick vi sono elementi già affrontati da Akin: la contaminazione sociale e culturale, l’emigrazione, il viaggio, l’integrazione in un nuovo contesto. Si pensi al mediocre Solino (2002), su una famiglia italiana tra Puglia e Germania negli anni Sessanta, a La sposa turca, Orso d’oro alla Berlinale 2004, dove si racconta la situazione, inizialmente paradossale, di un quarantenne che ha tentato il suicidio e di una giovane donna (Sibel Kekilli, già attrice di film porno) che cerca di sfuggire all’oppressione familiare e propone all’uomo un matrimonio di convenienza.
Cinema del movimento e dello spostamento, quello di Fatih Akin. Che con Ai confini del Paradiso (2007) realizza la sua opera migliore, tra Turchia e Germania, due luoghi geografici molto differenti eppure comunicanti dove si incamminano e sostano (a piedi, in treno, in aereo, in auto) i numerosi personaggi rappresentati. Akin racconta il disagio odierno del vivere sospesi fra due culture, due identità, due spazi, e le loro molteplici variazioni sottotraccia. C’è un sentimento fassbinderiano, la consapevolezza di creare emozioni sottraendo, lavorando sui vuoti, sui dettagli, sulla potenza espressiva degli attori (tra cui Hanna Schygulla, a proposito di Fassbinder…).
Nei successivi Soul Kitchen (2009) e Il padre (2014), Akin perde forza espressiva. In Soul Kitchen si concentra su un’unità di luogo, la periferia di Amburgo, e al dramma sostituisce i gesti e le dinamiche della commedia per descrivere altri personaggi di varia provenienza ancora una volta, nel suo cinema, alle prese con le questioni dell’identità e di non facili relazioni sentimentali e sociali. Ma è un lavoro troppo pre-confezionato. E le cose peggiorano con Il padre (in originale un più pertinente The Cut, in riferimento alla vita del protagonista letteralmente spezzata, tagliata, dalla separazione obbligata dalla moglie e dalle due figlie gemelle), odissea di un uomo per ritrovare, da qualche parte nel mondo, le figlie, mentre la moglie scoprirà essere stata uccisa negli anni della guerra. Si parla del genocidio del popolo armeno, massacrato a partire dal 1915 dagli ottomani negli ultimi anni del loro impero, in un film grondante retorica, zeppo di soluzioni narrative e formali inutilmente ridondanti.