Prima le illusioni, poi la delusione. Analisi di un momento molto particolare del nostro cinema
Finito questo 68esimo Festival di Cannes, possiamo domandarci cosa resta del cinema italiano dopo il quasi exploit sulla Croisette. La parola chiave è quel “quasi”, perché è vero che siamo andati alla grande come rappresentanza cinematografica, ben tre film in concorso, ma è anche vero che la giuria presieduta dai Fratelli Coen ha bellamente ignorato cotanta dimostrazione di forza. C’è poi che i tre registi di questa, alla partenza, invincibile armada, erano, anzi, sono e rimangono registi coccolati dalla critica nostrana.
Infatti Nanni Moretti, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino sono partiti con i nostri critici più che entusiasti, tanto che forse titoli così ottimisti hanno convinto più di uno dei tre che a casa sarebbe tornato con qualcosa in tasca, e invece in tasca gli è rimasto solo il biglietto di ritorno. Sul tappeto rosso della serata conclusiva, quella della premiazione, i tre moschettieri non si sono visti e la Palma d’oro è rimasta in Francia.
Con calma. Che tre film italiani siano finiti in concorso a Cannes è un bene, certo, ma di per sé il dato numerico indica una quantità e non necessariamente una qualità, in più a contare dal 2001, anno in cui vinse Moretti con La stanza del figlio, Garrone, Sorrentino e lo stesso Moretti sono stati ospiti fissi a Cannes per quasi ogni loro film uscito da allora. A Cannes Moretti è sempre stato di casa; Matteo Garrone ha trovato la sua consacrazione con Gomorra (anche se non vinse la Palma d’Oro); Paolo Sorrentino ha avuto un rapporto di maggior diffidenza con i francesi che apprezzarono a metà Il Divo, ignorarono La grande bellezza, ma comunque gli hanno sempre dato una vetrina internazionale da “autore”.
Ecco, il problema forse è proprio numerico: che solo questi tre registi italiani sono arrivati a Cannes; che in quindici anni si è vinto una sola Palma d’Oro ma che sempre quei tre nomi siano stati avvistati in quei paraggi… e tutto il resto del cinema italiano? Perché a Cannes non viene selezionato? Perché altrettanto succede al Festival di Toronto e magari pure a quello di Zagarolo? Perché?
Se a Toronto scarseggiamo in presenza è forse colpa dei voli Alitalia?
Certo che no. Produttori, distributori, associazioni di categoria, forse la colpa è da rintracciare in questi cartelli perché è la dentro che si rinchiude una elite che decide e pensa e riproduce se stessa. Di fatto, come a molti capita, ci siamo rotti di sentirci evocare all’estero per il neorealismo, un cinema bello ma ormai lontano. Noi siamo sempre alla disperata ricerca dell’approvazione altrui e per farlo siamo disposti anche a rinunciare a noi stessi, anzi no, a noi stessi no, a tutti gli altri semmai.
I film che abbiamo portato a Cannes quest’anno, checchè ne dicano alcuni critici (sono un cartello anche loro) forse non erano all’altezza delle attese, forse non erano così belli, forse non erano così comprensibili, forse era lecito pensare che potevano anche non piacere. Perché un film può pure non piacere a una giuria di Festival e il fatto non è reato di lesa maestà. I film invecchiano ma i registi rischiano di invecchiare ancora più velocemente dei loro film. Se in quindici anni la truppa inviata a Cannes ha visto la presenza di Moretti, Garrone e Sorrentino ogni qual volta che questi facevano un film, allora c’è da cominciare a pensare che qualcosa non va, che non osiamo più di tanto e che i tre siano bravi solo a casa loro o che comunque non sempre eccellano.
Guardiamo i premi importanti alla kermesse di Cannes: miglior attore Vincent Lindon per La Loi du marché di Stéphane Brizé, film sul dramma della disoccupazione e della difficoltà a ricollocarsi quando non si è più giovani; miglior attrice Emmanuelle Bercot per Mon Roi e Mara Rooney per Carol di Tom Haydes, film sull’omossessualità femminile ambientato negli anni Cinquanta in America; miglior regista Hou Hsiao-Hsien per il film wuxia The Assassin, film di genere, di genere popolare; miglior sceneggiatura a Chronic del messicano Michel Franco, su un infermiere (Tim Roth) che assiste i malati, tanto bravo quanto incapace di stabilire relazioni umane al di fuori del nosocomio; Palma d’oro a Deephan di Jacques Audiard, che ha per tema l’immigrazione e l’integrazione.
Ora non possiamo riportare il cinema o un qualsiasi audiovisivo alla dimensione dualistica tra realismo e costruttivismo, tra la vita reale e la meraviglia. Non possiamo continuare a interrogarci su cosa sia un film d’arte o di cassetta, dove il primo è cultura e l’altro solo divertimento. Non possiamo perché non serve a niente, magari va bene per l’accademia, ma per il cinema è del tutto fuorviante. I film sono prima di tutto un prodotto popolare, poi semmai viene tutto il resto. Allora hanno poco da lamentarsi i nostri critici che spolverano il tappetino di alcuni registi, sempre gli stessi, mentre spernacchiano tutti i tentativi di trovare strade alternative. La giuria di Cannes ha espresso un giudizio che rappresentava una visione, una scelta decisa che è andata in una direzione ben precisa, i film italiani erano nella direzione opposta.
Nanni Moretti somma Aprile e La Stanza del figlio e tira fuori Mia madre che racconta l’elaborazione di un lutto all’interno di un meccanismo dove non riconosce nient’altro all’infuori di se stesso e del suo mondo; Matteo Garrone eleva a ennesima potenza le favole popolari di Giambattista Basile provando a conferire a quei racconti un senso estetico alto e ricercato, ma di fatto togliendo l’anima a quei racconti, e questo è il suo Racconto dei Racconti; Paolo Sorrentino porta Youth – La giovinezza dove replica l’estetizzazione de La grande bellezza scavando il grande vuoto, il nonsense filmico per eccellenza convinto di aver portato l’arte. Ma la vita dov’è? Viene da domandarsi dove questa gente viva, in quali strade cammini. Magari usa frequentare gli stessi bar dei critici che dopo la debacle finale del Festival si sono lamentati del fatto che in giuria non ci fosse neanche un italiano… per fortuna che non c’era, chissà cosa avrebbe combinato.
La fiducia nel nostro cinema deve partire dalla fine dei nostri pregiudizi, ma i primi a dover fare questo passo sono proprio i registi: avere più consapevolezza del paese dove vivono e non dei loro appartamenti. Perché se Nanni Moretti arrivato a Cannes loda la Francia e il sistema cinema francese (che non lo ha premiato nonostante la ruffianaggine, perché la serietà ogni tanto conta) e sperando che i pubblici italiani, troppo disattenti e disaffezionati, un giorno possano essere come quelli d’oltralpe… ecco, lui, e gli altri, che fa i film con i soldi dei contribuenti che gli gira il Ministero, allora provi a rimanere in Francia, non torni e tenti lì di fare i film e vediamo dopo cosa succede.
Ma anche questo è un pregiudizio da far cadere.
Massimiliano Pistonesi