A Piemonte Movie il documentario Un altro me sui detenuti per reati sessuali

Girato da Claudio Casazza nel carcere di Bollate il film pone profonde domande e riflessioni, ma è debole nello stile adottato per raccontare i fatti

Tratta un argomento forte, Un altro me di Claudio Casazza. Il regista ha trascorso un anno seguendo nel carcere di Bollate un gruppo di detenuti per reati sessuali e gli psicologi dell'Unità di trattamento intensificato del CIPM, primo esperimento in Italia di prevenzione della recidiva per tali crimini. Non era semplice trovare un modo per filmare quelle persone che si raccontano agli psicologi e alla video camera in lunghe sedute collettive di confronto/scontro. Casazza ha scelto un espediente mantenuto per tutta la durata del documentario, mantenere tutto a fuoco tranne i volti dei detenuti o, in alternativa, mostrare solo parti dei loro corpi, mai il viso. Quel che limita la potenza delle storie narrate, e i punti di vista dei carcerati, è però un uso fin troppo schematico sia del fuoco/fuori fuoco sia del modo anonimo di riprendere le conversazioni, soprattutto quelle degli addetti ai lavori nella stanza delle riunioni oppure le attività lavorative-ricreative attuate nel penitenziario. In tal modo anche il momento più intenso e drammatico del film, l'incontro tra loro e una vera vittima di abusi fin da bambina (che i detenuti non pensavano fosse una donna realmente colpita da una violenza sessuale, ma qualcuno che interpretava un ruolo), perde la sua forza proprio per l'assenza di uno sguardo personale nel filmarlo.

Un altro me è uno dei titoli inseriti nella sezione Panorama Doc del Piemonte Movie Glocal Film Festival di Torino. "Credo che il documentario non rappresenti solo un dialogo tra detenuti e terapeuti, ma sia costantemente un dialogo con lo spettatore perché ciascuno possa farsi delle domande, avere il proprio percorso di consapevolezza e trarne le considerazione che vuole", spiega il regista. E sono parole del tutto condivisibili. Casazza ricorda anche che "pur non potendo evitare di trattare realtà dolorose, ho voluto togliere qualsiasi dettaglio voyeuristico per costruire un territorio aperto nel quale ciascuno possa riflettere su un reato che, sebbene sembri sotto gli occhi di tutti, rimane per lo più sommerso e troppo poco compreso. Ho voluto entrare in carcere senza pregiudizi e volevo che questo atteggiamento si riflettesse nel film". Una parsimonia filmica evidente fino al punto, però, di rendere senza personalità un testo abitato da un soggetto delicato e potente.