Il Dubbio - Un caso di coscienza, il peso delle parole

Vahid Jalilvand segue le orme di Asghar Farhadi per un cinema iraniano emozionante e ambizioso.

Il piccolo Amir, un bambino iraniano di appena otto anni, giunge senza vita nell’ospedale della sua città per l’inevitabile autopsia del cadavere. Il referto indica come causa di morte un avvelenamento da botulino (provocato probabilmente dalla carne di pollo ingerita a casa dal piccolo), ma il medico Narima teme che, in realtà, il vero motivo del decesso possa essere la microfrattura di una vertebra del collo causata da un incidente stradale avvenuto qualche ora prima e provocato proprio da lui in un attimo di distrazione al volante. Se il titolo italiano del film di Jalilvand, Il Dubbio - Un caso di coscienza, spiega didascalicamente quali saranno i sentimenti prevalenti in questa drammatica storia, ovvero quello dell’incertezza della colpa e dell’impotenza nei confronti di una tragedia evitabile, la traduzione letteraria di quello originale (Senza data, senza firma) suggerisce l’importanza del sistema giuridico come istituzione deputata all’accertamento della verità, intesa non come reale conoscenza dei fatti (a cui spesso è impossibile risalire con certezza), ma come accordo fra diverse persone (i membri della corte ed i giudici) chiamate ad ascoltare e giudicare le diverse storie dei diversi imputati. Sistema giuridico invece completamente assente nelle dinamiche private che coinvolgono i personaggi de Il Dubbio - Un caso di coscienza.

Il Dubbio - Un caso di coscienza: il cinema iraniano alla ribalta

Quello di Vahid Jalilvand è un film che si muove nelle acque di Asghar Farhadi, da cui riprende la descrizione delle diverse classi sociali e della loro reciproca diffidenza, ma che in qualche modo ricorda anche quello duro e austero di Thomas Vinterberg che, con Il Sospetto, è riuscito a mettere in scena proprio la dolorosa ricerca della verità (che non è mai quella più intuitiva e facilmente decifrabile) e le conseguenze che la sua rivelazione può comportare. Nel solco di una lunga tradizione che, ancora oggi, prosegue con Farhadi ma che prima di lui è stata portata avanti da un maestro come Abbas Kiarostami, il cinema di Vahid Jalilvand sembra porre una domanda destinata a non avere mai una risposta.

Ed è proprio l’assenza di certezze che condurrà alla follia i due protagonisti: il padre del ragazzo, che si convincerà di aver ucciso il suo primogenito con della carne avariata, e il medico legale, che invece vivrà nella convinzione che la morte del piccolo sia stata in realtà dovuta all’incidente stradale e non all’avvelenamento per botulino.

Il primo, mosso dalla disperazione, tenterà di farsi giustizia da solo uccidendo chi gli ha venduto la carne, mentre il dottore cercherà prima di tutto di coprire ogni eventuale prova a suo sfavore (a sottolineare anche la differente reazione di due persone dall’estrazione sociale molto diversa, che può determinare un’azione istintiva ed emotiva oppure fredda e calcolatrice). 

Il Dubbio - Un caso di coscienza: la recensione del film di Vahid Jalilvand

A sottolineare l’importanza che riveste il confronto, sociale e culturale, tra i diversi protagonisti della vicenda, ci sono le numerose sequenze di dialogo, durante le quali i personaggi si scambiano accuse e rimproveri in tesissimi scontri verbali che sono però svuotati di senso dal dolore che una perdita così futile ed ingiusta può portare con sé. Così, in questo film in cui si parla molto e si litiga in maniera spesso violenta, assumono un ruolo fondamentale non solo le pause ed i silenzi dei personaggi, ma anche i rumori ambientali, che lo stesso regista carica di significato sostituendoli di fatto alla colonna sonora (presente solo in pochissime sequenze).

I dialoghi tra personaggi assumono nell’economia della sceneggiatura anche la funzione di riassumere lunghi periodi temporali che il montaggio del film volutamente preclude alla visione dello spettatore, che verrà a conoscenza di determinati avvenimenti quando questi sono già avvenuti da tempo (come spesso avviene nei lavori di Michael Haneke). Jalilvand sceglie di narrare la sua storia virando sulle tonalità del grigio e mettendo in scena una realtà plumbea, smorzando i (pochi) colori con una fotografia in grado di spegnerli e mai di esaltarli.

La regia de Il Dubbio, rigida e diretta, serve la narrazione senza mai sovrapporsi ad essa, almeno sino alla scena finale, in cui la negazione del controcampo del dottor Narima (Amir Aghaee) assume un significato diegetico e non solo stilistico. Lo spettatore che è chiamato ad accettare l’ambiguità di una vicenda che, fin dal suo principio, è destinata a rimanere irrisolta (o a risolversi solo in maniera superficiale), osserva i personaggi non con distacco, ma partecipando ai loro drammi e facendo proprio il loro punto di vista. 

Il Dubbio - Un caso di coscienza: un film sul peso delle parole

Dove il film di Vahid Jalilvand riesce con maggiore efficacia è nella descrizione delle diverse reazioni dei protagonisti, imposte dalla diversa percezione che la società ha del loro ruolo e dalla diversa “onorabilità” che le loro professioni richiedono. Per queste ragioni uno sconosciuto padre di famiglia, che non deve dar conto a nessuno se non a sua moglie, può permettersi di perdere la testa, a differenza di un rispettabile anatomo-patologo, che, invece, deve prima di tutto salvaguardare la dignità della corporazione di cui fa parte (prima ancora della dignità della sua persona). In questa ottica le classi sociali più marginali, quelle abbandonate da un sistema statale che si è scordato degli ultimi, tenderanno ad autofagocitarsi a causa di una violenza e di un sentimento di vendetta che sono sempre dirette orizzontalmente e mai verticalmente.

Così Il Dubbio, già premiato nella sezione Orizzonti alla 74° edizione della Mostra del Cinema di Venezia e in sala dal 10 Maggio 2018, è un film sulle parole e sul loro peso, spesso differente perché è differente il peso di chi le pronuncia. Ma è anche un film che ripercorre con rinnovata forza strade già battute dal cinema iraniano, che ha fatto del giallo il suo genere di riferimento, strumento per affondare il dito nelle piaghe di conflitti ancora irrisolti e di lacerazioni del tessuto sociale che faticano a cicatrizzare. Per queste ragioni il nuovo lavoro di Vahid Jalilvand, pur nella sua estrema e voluta semplicità narrativa, che spesso cede il passo ad un minimalismo stilistico e registico, è una testimonianza importante di come il cinema iraniano sia oggi uno dei più riconoscibili e codificati. 

Voto: 7