Il Museo Nazionale del Cinema rende omaggio all'autore americano con la rassegna Travel a Lot. Live a Lot
Non ha mai smesso di fare film, Jon Jost. Eppure sembrano lontani, appartenenti a un'altra era, i film degli anni Sessanta e Settanta che ce lo fecero conoscere, apprezzare, amare. Opere di un autore radicalmente indipendente, sperimentale e politico, mai omologato all'interno dello stratificato panorama del cinema americano. In Italia, fu grazie al Bergamo Film Meeting che si scoprì l'universo arrabbiato di Jon Jost. Era il 1994 e la manifestazione bergamasca organizzò una retrospettiva completa dei suoi lavori, lungometraggi e cortometraggi, pubblicando anche un piccolo prezioso volume. Diventò così familiare il cinema del regista nato a Chicago nel 1943, poi cresciuto in varie parti degli Stati Uniti e del mondo (Georgia, Kansas, Giappone, Italia, Germania, Virginia). In seguito, non fu facile seguire l'evoluzione del suo stile passato dalla pellicola al digitale, della sua poetica ancora e sempre abitata dalla polemica, dal rifiuto dei compromessi. Ci furono meno occasioni per incontrare i suoi film. Assume quindi particolare significato l'omaggio che gli dedica il Museo Nazionale del Cinema di Torino (al cinema Massimo dal 21 al 26 febbraio 2017), soffermandosi sul periodo più recente, gli ultimi dieci anni, della filmografia di Jost. Non solo film, ma la possibilità di ascolare dallo stesso regista (martedì 21 e mercoledì 22 febbraio 2017) il suo pensiero, il suo modo di lavorare.
Un modo di lavorare ben riconoscibile fin dai primi film e che documenta anche l'evolversi di una ricerca a contatto con i cambiamenti dei supporti utilizzati per realizzarta: il 16mm, il 35 mm, le prime fasi del video, il digitale. Tecniche mai separate dall'impegno sociale, al servizio di un cinema di lotta e di resistenza. Non è un caso che negli anni Sessanta Jost sia stato in carcere per essersi rifiutato di arruolarsi per il Vietnam e che abbia formato una cooperativa di political filmmaking. Non ha inoltre mai nascosto i giudizi negativi su diversi colleghi, da Robert Kramer, uno dei più grandi narratori con la macchina da presa dell'America dagli anni Sessanta in poi, all'esordiente Jim Jarmusch. Nei suoi film di quel periodo, Jost ha raccontato l'America e se stesso (Speaking Directly: Some American Notes, 1972-'74), ha dato la sua risposta a Hollywood (Angel City, 1977), ha descritto le vicende di uno spacciatore (Camaleonte, 1978), ha scelto i toni della tragedia potente per rappresentare la storia di un padre che uccide il figlio (Sure Fire, 1990, uno dei suoi capolavori, se non il suo capolavoro), ha costruito attorno al dipinto di Vermeer La ragazza con velo un film di incontri, amori, sofferenze (Tutti i Vermeer a New York, 1990), è ricorso all'uso dello split screen per visualizzare le contraddizioni di un uomo (The Bed You Sleep In, 1993).
Compiendo un salto temporale eccoci al Jon Jost del nuovo millennio in visione a Torino. Che continua a interrogarsi sul cinema, la vita e la morte (Coming to Terms, 2013), le relazioni sofferte (Blue Strait, 2014), l'attualità e la memoria (La lunga ombra, 2006), l'America delle piccole città (They Had It Coming, 2015; Homecoming, 2014). A proposito de La lunga ombra, Jost afferma che "in questo film il soggetto si mostra indirettamente e poeticamente", aggiungendo, con funzione di sintesi, "come con la maggior parte dei miei film".