Suburbicon, la recensione del coeniano film di George Clooney

Suburbicon di Goerge Clooney è tratto da una sceneggiatura che i fratelli Coen scrissero negli anni ottanta; Clooney riesce a unire il suo spirito liberal con il grottesco coeniano

Suburbicon (2017) è il sesto film diretto dall'attore George Clooney. Il film è stato presentato in concorso alla 74° edizione del Festival del Cinema di Venezia ed è tratto da una sceneggiatura scritta negli anni ottanta dai Fratelli Coen; la coppia di registi accantonò poi il progetto fino a regalarlo all'amico e collega già protagonista di molti loro film. I protagonisti sono Matt Damon, Juliane Moore e il dodicenne Noah Jupe, affiancati da Oscar Isaac, Glenn Flesher, Megan Ferguson, Jack Conley e Gary Basaraba.

Suburbicon, la trama

Siamo negli anni cinquanta. Suburbicon è il nome di un sobborgo lindo, pulito, quieto, elegante e dall'alta qualità della vita; un paradiso per la classe media. Qui vive la famiglia Lodge, formata dal capofamiglia Gardner (Matt Damon), da sua moglie Rose (Julianne Moore) e dal piccolo Nicky (Noah Jupe). Ospite frequente della loro villetta è Margaret, sorella gemella di Rose e interpretata sempre da Julianne Moore.

Nel sobborgo arriva una famiglia di colore, che sconvolge il luogo, scatenando il razzismo e l'intolleranza degli abitanti e rompendo la quiete. Quiete apparente e di facciata, dato che il sobborgo dietro le mura delle villette tutte uguali nasconde segreti e avvenimenti scabrosi. Uno di questi coinvolge la famiglia Lodger, con la morte di Rose.

In un duplice climax, l'aggressività degli abitanti verso i nuovi arrivati di colore cresce e gli effetti dell'avvenimento scabroso che ha colpito la famiglia Lodger si scatenano in maniera sempre più grottesca.

Suburbicon, gli echi dell'attualità

Tra i vari commenti che hanno accompagnato Suburbicon è capitato spesso di leggere o sentire la previsione secondo la quale George Clooney con questo film abbia posto le basi per una sua futura candidatura, in campo ovviamente democratico, alla presidenza degli Stati Uniti. Una previsione basata più su sensazioni ed emozioni che su indizi oggettivi  che risente delle reazioni e dello shock causati dall'elezione di Donald Trump e della teoria per la quale l'elezione del tycoon sia stata la definitiva abdicazione della politica in favore dello spettacolo e della razionalità in favore della pancia. Una chiave di lettura certamente interessante per analizzare come la salita al potere di Trump abbia scioccato e colpito soprattutto la parte a lui avversa, tanto da far leggere anche in quel campo l'attualità politica secondo proprio quella spettacolarizzazione e quella dittatura dell'immediato e dell'emotività contestate al candidato repubblicano.

È, d'altro canto, innegabile come nel film risuoni chiaramente lo spirito liberal di cui il regista è tra i più celebri testimonial e come le sue prese di posizione siano dichiarate, nonostante il film segua, vedremo, due strade apparentemente parallele.

Suburbicon, l'analisi

Il fatto che Suburbicon sia tratto da una sceneggiatura dei fratelli Coen è evidente, e lo spirito coeniano è altrettanto pregnante della visione liberal di Clooney. Riecheggiano, per esempio, il nichilismo di Fargo (1995), la stupidità folle e pericolosa di Burn after reading (2008) e la mediocrità diventata sistema de L’uomo che non c’era (2001). Dal canto suo, Clooney conferisce all’opera proprio l'impegno liberal e l'approccio politico diretto assente nel cinema dei fratelli originari del Minnesota, interessati ad un’analisi - per così dire - più antropologica e filosofica che esplicitamente politica e di parte e a stilare uno stupidario nichilista della società e della contemporaneità (per quanto, intendiamoci, proprio per questo motivo il loro cinema è sempre attuale e urgente).

Il segmento d'ispirazione coeniana e quello più evidentemente liberal e schierato quindi convivono e avanzano parellalemente, caratterizzando ognuno una delle due vicende portanti del film. Il fattaccio criminale che avviene tra le quattro mura della villetta e che vede come protagonisti i personaggi interpretati da Matt Damon e Julianne Moore e le sue conseguenze scatenano il sarcasmo, il cinismo e il grottesco nichilista farina del sacco dei Coen; il senso di minaccia e di pericolo incombente che aleggia sulla famiglia di colore ha evidenti echi nell'attualità e diventa un sardonico apologo contro il razzismo, oltre che la firma più personale del regista. George Clooney riesce in fin dei conti ad amalgamare le due parti e a creare un unicum efficace, almeno fino ad un certo punto.

C'è infatti un doppio climax quasi apocalittico che fa esplodere le vicende quasi contemporaneamente, mostrando così come le due coordinate narrative principali all'apparenza evolvino in maniera indipendente, ignorandosi a vicenda, ma nella sostanza siano legate a filo doppio, in quanto frutto dello stesso substrato sociale e culturale. Ognuna è specchio dell'altra. Il parellelismo sottolinea e rafforza lo sguardo critico verso il culto dell’apparenza, la cecità dell'appartenenza, la cattiveria mediocre e stupida, l'intolleranza feroce e l’ipocrisia della popolazione del sobborgo.

Scelta, quella della "simmetria" narrativa, che conferisce al film la giusta dose di sconsolata e ironica cattiveria, nonostante sia altrettanto evidente il manierismo con cui viene ripresa la poetica coeniana che impedisce a Suburbicon di essere davvero originale e che in parte annacqua il potenziale satirico.

Suburbicon, il finale

George Clooney riesce a gestire e a tenere a bada le pur evidenti e chiare prese di posizione ideologiche e le rivendicazioni  politiche, impedendo loro di divorarsi il film, fino alla didascalica e stonata chiusura. Retorica e un po' fuori fuoco, portatrice di una speranza un po’ posticcia e, appunto, di una presa di posizione politica troppo palese, dichiarata e artificiosa, la sequenza finale di Suburbicon pare motivata dall’esigenza del regista di ribadire a chiare lettere la propria contrarietà alla nuova era trumpiana, rischiando però così di annacquare la forza sardonica e ironica che la visione antropologica ricalcata, per quanto un po’ di maniera, sul cinema dei fratelli originari del Minnesota stava conferendo al film.

Voto 6 1/2

Frase

Va tutto a rotoli, Maggie!

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