Sully di Clint Eastwood, il piacere infinito del cinema classico

Il regista americano trasforma un fatto di cronaca che emozionò gli Stati Uniti e il mondo in una perfetta lezione di cinema dove il presente e il passato dialogano senza forzature. Tom Hanks nel ruolo del pilota diventato un eroe

Il 15 gennaio 2009 il capitano Chesley Sullenberger, chiamato da tutti Sully, fu costretto, con l’aereo appena decollato dall’aeroporto newyorkese di LaGuardia e con a bordo 155 persone, a compiere un ammaraggio sul fiume Hudson in seguito all’avaria di entrambi i motori. La sua quarantennale esperienza di pilota si rivelò decisiva unitamente al suo istinto, alla necessità di prendere nel volgere di poche decine di secondi una decisione tanto netta quanto rischiosa. E riuscì a salvare la vita a tutti i passeggeri. Sully divenne un eroe, ma non per le alte sfere dei comandi aeronautici e per le assicurazioni che cercarono di individuare, non riuscendovi, errori di valutazione eventualmente commessi dal capitano e dal suo co-pilota Jeff Skiles, un loro mancato attenersi alle procedure.

Si tratta di un avvenimento realmente accaduto, trasformato dal genio filmico di Clint Eastwood nell’essenza più pura del cinema, quello cosiddetto classico tanto amato dal regista e attore americano, che rimane oggi il portavoce sublime di quella età dell’oro. Sully (disponibile in dvd dal 22 marzo 2017) conferma semplicemente la coerenza di una filmografia avviata in veste di cineasta 46 anni fa, nel 1971, anno dell’esplosivo esordio di Eastwood dietro la macchina da presa con il thriller erotico-sentimentale Brivido nella notte (di tutt’altra pertinenza diegetica è il titolo originale, Play Misty for Me). E, all’interno di tale coerenza, Eastwood con il suo più recente film sorprende per il modo con cui porta in immagini quel fatto di cronaca. Non un film catastrofico. Non un testo che descrive in progressione cronologica quel che accadde. Bensì la tensione interiore di un uomo che, nei giorni immediatamente successivi, si trova costretto a rivivere più e più volte quegli sconvolgenti 208 secondi davanti alla commissione pronta a tutto per renderlo colpevole, obbligarlo alle dimissioni, negargli la pensione.

Tutto passa attraverso gli occhi, i pensieri, la memoria di Sully, interpretato dal premio Oscar Tom Hanks che gioca sulle sfumature, su una recitazione sussurrata, su impercettibili eppure immense variazioni del volto. In tal senso, Sully (del tutto escluso dai Golden Globes che saranno proclamati domenica 8 gennaio 2017) è un film piccolo, intimo, proprio perché ogni immagine, compresi gli incubi e le visioni a occhi aperti, scaturisce dalla mente di un personaggio obbligato a ricordare, ricostruire, rimettere insieme i pezzi di una tragedia scampata, porsi continue domande, evocare a un certo punto anche dubbi sul suo comportamento in volo. Il presente e il passato - quello recentissimo relativo alla giornata dell’incidente, dalla preparazione della partenza al decollo fino all’ammaraggio, e quello lontano riguardante due episodi emblematici della vita di Chesley Sullenberger, il primo con lui ragazzo che impara a pilotare un aereo, il secondo con lui intento ad attuare un atterraggio d’emergenza durante una missione di guerra - convivono in Sully con esemplare naturalezza. Tra l’inizio e la fine di una telefonata alla moglie o tra l’entrata e l’uscita da un bar, sostando al bancone, si incastrano quelle incursioni nella memoria. La telefonata e il bar fanno da cornice a dei flashback che, però, Eastwood non tratta come tali, piuttosto li usa (complice il montaggio strepitoso di Blu Murray, già assistente montatore in molti film di Eastwood, da Flags of Our Fathers a American Sniper) come finestre per generare sovrimpressioni spazio-temporali.

In un film che, a testimonianza dell’essenzialità sia dello sguardo sia della narrazione, termina con una battuta fulminante di Skiles al termine del processo. Anche qui, a Eastwood bastano un’inquadratura e una frase per sciogliere tutta la tensione accumulata fino a quel momento.