The 13th è il documentario che secondo molti sconvolgerà l'America
"Sono cresciuta in un ambiente in cui la detenzione era sempre presente in modi diversi. Nel mio quartiere quando ero ragazza molte delle mie amiche parlavano di andare a trovare il padre o altri parenti in galera, quasi fosse normale. Come cineasta afroamericana ho pensato che questo fenomeno doveva essere inserito in un contesto storico e civile.
La maggior parte della gente non crea questo tipo di connessione tra il singolo e il sistema, chi come noi gestisce la comunicazione ha il dovere di esporre questi schemi al pubblico", così inizia Ava DuVernay al New York Film Festival.
La donna è regista del documentario sulla detenzione americana che è appena approdato su Netflix (il 7 ottobre). Gli Stati Uniti hanno il 25% del numero totale di detenuti sul pianeta: un numero decisamente sproporzionato.
Il documentario esplicita la tesi che il sistema americano abbia adoperato la carcerazione come strumento di controllo e oppressione delle minoranze afroamericane sin dalla fine della schiavitù.
"All'inizio avevamo impostato il discorso sulle compagnie private che sfruttavano il sistema carcerario per fare soldi, un'idea che mi ha sempre ripugnato. Ricavare denaro dalla punizione che qualcuno riceve è una cosa orribile. Mentre eravamo nel mezzo del discorso ci è venuto in mente di connettere il carcere per profitto a un contesto storico, ed ecco che il quadro generale si è palesato con chiarezza, ed è stato desolante".
"Ricordo i racconti di mia madre e mia nonna sulla segregazione, non soltanto quella feroce del Sud ma anche ad esempio a Ovest, dove la mia famiglia si era trasferita. Ora viviamo in un mondo del tutto diverso, non dobbiamo dimenticarlo.
Quello che possiamo fare è analizzare, parlare, spingere la gente ad ascoltare, esporre. Non mi metterei mai allo stesso livello di artisti come ad esempio James Baldwin. Come filmmaker posso dire con sicurezza che la mia condizione è molto migliorata rispetto anche a solo a dieci anni fa, e ovviamente lo è ancor di più dopo il successo di Selma".
"Abbiamo passato ore e ore al telefono con i familiari delle vittime di violenza da parte di polizia, di cui poi abbiamo utilizzato i video. Alcuni ci hanno negato il permesso, era ancora troppo doloroso per loro esporre i propri cari",
"Lo stile del documentario è molto classico, non volevo realizzare nulla di troppo ridondante, non si sarebbe adattato con il soggetto. Il production designer ha scelto degli ambienti sobri ma dotati di una loro presenza visiva, e a livello grafico abbiamo seguito la stessa idea. Volevamo evidenziare la forza dei set così abbiamo privilegiato materiali co mattoni, legno o il vetro di ambienti industriali, dove la gente ha lavorato o ancora oggi va a lavorare. Volevamo riprodurre quell'idea di lavoro legittimo che per così tanto tempo è stato rubato alla comunità afroamericana".