The Post, la recensione del film di Steven Spielberg, un'orgogliosa difesa della libertà di stampa

In The Post Steven Spielberg racconta la vicenda dei Pentagon Papers realizzando un'arrabbiata difesa della libertà di stampa, sostenuto da una superba Meryl Streep e da un bravissimo Tom Hanks

The Post, il nuovo film di Steven Spielberg, ha ottenuto due nomination agli Oscar 2018; lotterà per il miglior film e, con Meryl Streep, per la miglior attrice protagonista. Ha lasciato un po' perplessi l'esclusione di Spielberg dal quintetto che si contenderà il premio per la miglior regia, dato che, entusiasmi o meno il film, il regista ha confermato di sapere benissimo cosa significa stare dietro una macchina da presa. Probabilmente avrebbe meritato di essere presente sui blocchi di partenza la notte del quattro marzo 2018 anche il protagonista maschile Tom Hanks. Hanks è infatti bravissimo, mentre la Streep è superba e offre una delle sua migliori interpretazioni degli ultimi anni, senza dare l'impressione di usare il pilota automatico come talvolta è accaduto nell'ultimo periodo. Hanks e Streep sono affiancati nel cast da Bob Odenkirk, Sarah Paulson, Tracy Leets, Bruce Greenwood, Alison Brie e Bradley Whitford.

The Post, la storia vera

The Post racconta la vicenda dei "Pentagon Papers". La pubblicazione, cioè, avvenuta nel 1971 da parte del Washington Post, allora giornale locale che proprio in quei giorni si stava quotando in borsa, di documenti top secret del ministero della difesa riguardanti la guerra in Vietnam. Nello specifico come i presidenti degli Stati Uniti abbiano nascosto le previsioni più pessimiste sulla guerra e abbiano, fondamentalmente, mentito alla nazione.

L'inchiesta, lanciata in realtà dal New York Times, ha portato i due giornali davanti alla corte suprema, con l'accusa di avere infranto il segreto di stato e messo in pericolo gli interessi degli Stati Uniti. Processo da cui, in nome della libertà di stampa sancita come diritto inviolabile dal primo emendamento, sono usciti assolti e illesi. Famosa anche la ripicca del presidente Nixon, il quale vietò, dopo la vicenda, ai giornalisti del Washington Post di mettere piede alla Casa Bianca.

The Post, la trama

Il film di Spielberg racconta questa vicenda da due punti di vista; quello del direttore del Washington Post (Tom Hanks) e di quello della sua editrice (Meryl Streep). Il primo è il classico giornalista tutto d'un pezzo, un po' eticamente forte e un po' cinico, che non guarderebbe in faccia al parente più stretto pur di avere in mano la notizia, difendere il giornale e trasformarlo in un periodico nazionale e rinomato ovunque.

La seconda è invece una donna, appartenente all'alta borghesia liberal, che si ritrova nel delicato ruolo di editrice dopo la morte del marito; deve decidere se tradire un caro amico – Robert McManara, ministro difesa che commissionò quei documenti -, andare fino in fondo rischiando di vanificare la quotazione in borsa del giornale e quindi il posto di lavoro di vari giornalisti e rischiare di andare contro la legge, ma che proprio da questa storia troverà consapevolezza della sua forza e del suo ruolo, uscendo dagli ostacoli imposti da un ambiente che, pur con cortesia, non la considerava degna di quella posizione

The Post, l'analisi

In un paese come il nostro in cui tanti giornalisti fanno il salto della quaglia e si candidano a sinistra, a destra e laddove non c'è né sinistra né destra la visione di The Post, l'ultimo film di Steven Spielberg, dovrebbe apparire strana. Non perché Spielberg sia ingenuo o idealista e consideri la stampa come totalmente immune da appartenenze politico e ideologiche; vengono, per esempio, sottolineati i rapporti del direttore del giornale con John Fitzgerald Kennedy, anche lui interessato dallo scandalo. Piuttosto perché vuole ribadire con forza il suo ruolo di controllo e di controcanto del potere, anche se e quando schierata; lo fa in un momento storico in cui tra Casa Bianca e stampa non corre buon sangue, e lo fa con rabbia.

The Post è infatti, nella sostanza, un film arrabbiato, che raccontando la vicenda della pubblicazione dei "Pentagon Papers" da parte del Washington Post nel 1971 sembra seguire il detto manzoniano "parlar di Spagna per parlare d'Austria". Parlar di Nixon per parlare di Trump. È un film in cui la rabbia che lo attraversa nel profondo non diventa mai declamatoria né urlata, venendo espressa nei continui e spesso velocissimi movimenti di macchina che restituiscono la tensione di quei momenti così come simboleggiano la presa di posizione netta del regista, nelle carrellate che legano il rumore della stampa alla soddisfazione nel volto del giornalista e alle scrivanie che tremano o nelle magnifiche inquadrature in cui giganteggiano allo stesso modo le rotative dei giornali e i due protagonisti. A Nixon, per esempio, non viene concesso neanche l'onore di apparire davvero nell'inquadratura, sempre visto da lontano, quasi nascosto dalla tenda del suo ufficio e dalla penombra.

Steven Spielberg è sempre stato non solo un cantore di certi valori statunitensi, ma anche tra coloro più in grado di misurare il loro stato di salute. La libertà di stampa espressa dal primo emendamento è tra questi, e la sua importanza in un momento storico in cui è messa, per più motivi, in discussione viene ribadita. I due protagonisti diventano così un altro esempio del cittadino costretto a difendere gli ideali in cui crede, centrale nel cinema del nostro in particolare nell'ultimo periodo, anche a costo di andare contro le stesse istituzioni che di questi ideali dovrebbero essere i principali difensori. The Post continua quindi il lavoro di mitopoiesi, sempre ribadita e sempre in qualche modo ambigua e sfaccettata, della nazione trasformata dall'11 settembre che Spielberg sta portando avanti e che ha trovato il risultato più contraddittorio ed evidente nel magnifico Lincoln; lo fa con chiarezza apparentemente classica, rabbia "liberal" e passione, e con almeno una manciata di momenti di cinema assoluto.

The Post, Meryl Streep

La vera protagonista, infine, di The Post è l'editrice, interpretata da una Meryl Streep superba nel delineare il passaggio da donna  insicura del suo ruolo e trattata nell'ambiente quasi alla stregua di un elegante soprammobile a donna conscia delle proprie capacità e della propria posizione. Un ritratto femminile potente, anche in questo caso simbolo di una questione calda della contemporaneità, e anche in questo caso espressa – nonostante a lei venga concessa come "omaggio" la sequenza più retorica del film, quella del passaggio in mezzo a due cordoni di ragazze adornati all'uscita dal tribunale –  senza eccessivi didascalismi e senza eccessi retorici.

Voto 8

Frase

Tuttavia...

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