Il volteggiare di coreografie al limite della verosimiglianza ma paradossalmente ammirabili, youxia plasmati nel carisma da codici d'onore di ascendenza inafferrabile, sciabordii di dardi, "shuriken", nell'esaltazione di una visionarietà militaristica, trame ormai intagliate nello stesso immaginario occidentale.
Si tratta del filone dei film Wuxiapian, sorprendenti varchi per apprezzare piani irraggiunti e irraggiungibili, cesellati in realtà che non esiteremmo a definire arcaizzanti ma proposte in forme trepidanti e mai ridondanti nelle loro flessioni sceniche. Tali connubi di passato e modernità, di spazialità distanti ma convergenti, colpiscono un pubblico emotivamente sospeso ed invitato ad errare tra paesaggi onirici, in avventure di grande bellezza formale ed a riconoscersi in personaggi dalle infinite sfaccettature.
La tigre e il dragone, Ang Lee, 2000
Un contributo all'incidenza del genere in Occidente è certamente da rintracciare nel conclamato La tigre e il dragone, pellicola del 2000 diretta da Ang Lee, presentata fuori concorso al 53° Festival di Cannes. Il film sceneggiato, tra gli altri, dall'americano James Schamus, a dimostrazione del riverbero globale di questo Wuxiapian, fonde diverse istanze, dalla forza scismatica ed assolutamente innovativa del maestro Li Mu bai, che rinuncia a vendicare la morte del suo maestro abbandonando la propria spada, "Destino Verde", alle figure femminili dotate di grande caratterizzazione, come Yu Shu Lien, Jen Yu, Volpe di Giada. Davanti alla macchina da presa di un regista, come Ang Lee, certamente eclettico, si muove una Cina rurale rappresentata con una certa dovizia, alternando, in un intreccio di trame introspezione, tendenze zen e acrobazie trasfigurate in voli di grande eleganza. La spirale di amore e arti marziali si avvolge nei rapporti che legano Li Mu bai e Yu Shu Lien e la coppia Jen Yu e Lo. Sentimenti maturi, immaturi, debolezza e forza, coppie antitetiche che, anziché disorientare lo spettatore, sono fonti di grande attrattiva, in unioni di melodramma e azione che valsero a La tigre e il dragone quattro premi Oscar e due Golden Globe. Doverosa è la menzione alle grandi interpretazioni di Zhang Ziyi e Michelle Yeoh, rispettivamente nelle vesti di Jen Yu e Yu Shu Lien.
Hero, Zhang Yimou, 2002
Una stratificazione di temi, di suggestioni e di descrizioni prorompenti si addensano anche nella pellicola di Zhang Yimou, che aggrega illusioni e concretezza storica della Cina del III secolo a.C., in vette di grande icasticità. Il filone Wuxiapian viene recuperato dal regista in senso meravigliosamente estetico, in una bellezza visiva che non trova riscontri nel genere. Il racconto fluisce nello spazio di una Cina frammentata, in cui risalta la figura del re di Qin, che intende porsi come garante della sua unità, ma che è fatto oggetto di continui attentati alla sua persona. Zhang Yihou sbalordisce con trattazioni coloristiche che si modellano sul significato della narrazione ed anzi ne amplificano la percezione. Dopo l'arrivo di "Senza Nome", che simula una funzione salvifica e protettrice per il re asserendo di aver eliminato "Cielo", "Neve Che Vola", e "Spada Spezzata", sono proposte realtà che si scindono dal piano principale, modulate secondo diversi colori saturi e seguendo l'intimità dei personaggi, con toni dal rosso, al blu, al bianco, al verde. La grande vividezza delle immagini attraversa la pellicola, conformandosi ai seducenti temi dell'orgoglio, della lealtà, dell'amore per la patria. I combattimenti sono frutto di coreografie studiate, tangibili, ma restituiscono movimenti che svettano in violenza, leggiadria, in soavi disegni che il maestro Ching Siu-Tung riesce ad offrire. Hero inganna lo spettatore, lo conduce nei meandri del racconto di "Senza Nome", di cui si scopriranno gli stessi intenti regicidi, ma lo incanta nelle sue danze, nelle sue geometrie maniacali, iperboliche, assolutamente affascinanti. Le sfarzosità e le vorticose trasposizioni di vicende verosimili, accompagnate dalle sonorità di Tan Dun, si raccordano nella grande scelta di "Senza Nome", rappresentazione della volontà di salvaguardare il bene più prezioso, ossia la pace collettiva.
La foresta dei pugnali volanti, Zhang Yimou, 2004
Accostabile per la grande propensione alla bellezza formale è certamente La foresta dei pugnali volanti, ancora del regista Zhang Yimou. Il film, presentato fuori concorso al 57° Festival di Cannes il 19 maggio 2004, affonda la propria narrazione nell'ambientazione della Cina del IX secolo d.C., in cui il potere della dinastia Tang pare progressivamente sgretolarsi. Al potere costituito si oppongono sette ribelli, tra cui si segnala l'alleanza dei "Pugnali Volanti", che riunisce abili combattenti e valorosi uomini. Alle guardie imperiali Leo e Jin, viene ordinato di rintracciare il capo della setta e allo stesso fine Jin avvicina Mei, danzatrice apparentemente cieca che si dice essere vicina alla compagnia. Jin cadrà nel vortice d'amore per Mei, finemente caratterizzata, soprattutto nelle scene sinuose che esaltano i suoi moti leggiadri. Gli sfondi ricercati, tra il verticalismo delle foreste di canne di bambù, le sequenzialità cromatiche, in vere rappresentazioni favolistiche, contribuiscono sinergicamente ad un racconto in cui l'azione muove al passo di danza. Gli obiettivi di stato sembrano tuttavia sottostare agli intrecci d'amore, di passioni che coinvolgono Leo, Jin e Mei, e che si indirizzano tristemente ed inevitabilmente verso la tragedia. Il gusto per il melodramma si trasfonde in un finale che invita lo spettatore ad osservare, con partecipata commozione, l'abbraccio struggente di Jin al corpo di Mei ormai esangue. Impossibile restare indifferenti all'accorato appello del regista, che, dopo le eccessive spinte al surreale, all'ingenuo, sublima la morte in un sigillo che rende la stessa peregrinazione degli eventi pregevole.
Ashes of Time, Wong Kar-Wai, 1994
Il film, presentato nuovamente in versione ridotta al 61° Festival di Cannes, si pone in maniera assolutamente atipica nell'ampio panorama del genere dei film Wuxiapian. Ashes of Time imprime un'istanza di rinnovamento che si modella in combattimenti labili nella loro evanescenza, furiosi nella loro estemporaneità, violenti nel loro immediato scoccare di dardi e di lame. I fili della narrazione si annodano nel personaggio cardine di Feng Ou-yang, divenuto sicario, che dimora nella sua casa nel deserto, elevato a luogo di incontro con figure stupendamente delineate. Si avvicendano guerrieri, spadaccini, proiettati in riflessioni escatologiche o identitarie, un fratello decisamente protettivo e sua sorella ma soprattutto un misterioso individuo che sembra essere partecipe delle storie narrate. Dietro la maschera del puro pragmatismo, dell'assenza di compassione, si cela tuttavia in Ou-yang un animo dilaniato da un'amore che cerca di dimenticare ma che sopraggiunge nuovamente alla memoria. L'intreccio procede con una commistione pericolosa dei temi di amore e oblio, di amore e solitudine, sollecitata dall'ambientazione sapientemente scelta dal regista. L'intera costruzione della narrazione appare come un'anelante rincorsa protesa verso il nulla, l'ombra di una vacuità esistenziale che assottiglia gli stessi personaggi rappresentati. Il progetto coraggioso di una pellicola connotata da rarefazione, da una filosofia sottesa all'azione, oltre al superamento di alcuni stilemi, non incontrarono immediatamente i favori del pubblico. Ashes of Time è un film da assaporare, eleggibile a distruttore e prosecutore del genere, in un turbinio di linguaggi cinematografici che resistono anche quattordici anni dopo la sua uscita.
A Touch of Zen - La fanciulla cavaliere errante, King Hu, 1971
Giunta sul grande palcoscenico occidentale nel 1975, la pellicola di King Hu non appare come un semplice Wuxiapian ma trascende il genere, carpisce l'attenzione in modo trasversale sulla composizione dei temi di amore, fiducia, caducità della vita umana. Ambientato nel periodo imperiale Ming, nella densa Cina settentrionale, si impernia sulla vicenda della valorosa Yang, in fuga e rifugiatasi in una casa di fantasmi, dove incontra l'ingenuo pittore Ku che la incita alla rivalsa. Affrontano figure caratterizzate in modo ineccepibile, tra cui Abbot Hui Yuan, monaco buddista pacifico, esperto in arti marziali, le cui ferite si rigenerano e il sangue diviene un fluido d'oro. Nonostante la storia sia condotta attraverso la visione di Ku, Yang sospinge la narrazione, si carica di un forza carismatica che innalza la stessa figura del giovane pittore. I duelli infiammano l'azione nel corso dell'intero film e sono combattimenti materializzati attraverso tecniche differenti con l'impiego di luci, di piani perfettamente curati, come nei movimenti di Abbot Hui. A Touch of Zen compendia, da titolo, non solo descrizioni e rappresentazioni al limite del buffonesco, del goliardico, ma frammenti di una filosofia vissuta, piegata verso un fine che viene esaltato dalla morte del monaco. Si tratta certamente di un momento topico, in cui si addensano richiami religiosi, di un uomo come Abbot Hui vicino alla beatificazione. In definitiva, A Touch of Zen, è una pellicola di nicchia, ampiamente conosciuta dagli esperti del genere, ma che potrebbe essere facilemente fraintesa o non ammirata debitamente.