Da Truffaut ad Haneke, l'amore profondo, anarchico, tragico, di una vita, l'amore quotidiano nel cinema francese.
Parigi, la capitale dell’amour, la Francia, la nazione romantica per eccellenza che ha dato i natali ai più grandi registi del cinema occidentale che hanno saputo realizzare alcuni tra i più intensi film romantici – dove spesso il confine tra i generi è labilissimo – della storia del cinema.
Iniziamo da uno degli autori della nouvelle vague, che ha saputo riempire le pagine dei libri di storia del cinema e soprattutto i nostri cuori.
Jues e Jim (Jules et Jim, 1962), non un uomo e una donna bensì due uomini, due grandi amici, legati da un sentimento leale, incrollabile e fraterno (sebbene seguitino a darsi del “lei”). La donna, terza protagonista è l’affascinante, “greca”, Catherine, una splendida Jeanne Moreau, la quale ammaglia entrambe gli amici. Jim si fa lealmente da parte per Jules, il quale ha il classico colpo di fulmine. Gli anni passano, la grande Storia si intromette nella storia dei tre, finché Jim si ricongiunge alla coppia Jim-Catherine, ormai guastata. Jim, rivedendo la donna che lo ammagliò, si sente costretto a dichiararle i propri sentimenti. Dunque siamo d’innanzi ad un triangolo? Sì, ma nulla che abbia a che fare con ciò che potremmo aspettarci. Jules accetta il ribaltamento dei rapporti pur di non perdere la donna amata. Catherine però è una donna incostante, anarchica in amore, che mal si adatta alla routine sentimentale. Presto anche il sodalizio con Jim finirà. L’anarchia irrequieta di Catherine darà una sterzata alla sua vita e a quella di Jules.
Lapidaria, un classico dell’amore la frase pronunciata da una voce fuori campo in apertura: «M’hai detto ti amo, ti dissi aspetta. Stavo per dirti eccomi, tu m’hai detto vattene». Le attese che essa contribuisce a creare sono magistralmente trasgredite.
Francois Truffaut, nel suo terzo lungometraggio, mette in scena l’amore leale, quotidiano, sovversivo, incostante, in uno stile asciutto, volatile e leggero. Truffaut svolazza, come diceva Monicelli, sulla dura vita. Tratta con gentilezza da favola ciò che sempre, infondo, è amaro e atroce.
Successo enorme e Palma d’Oro alla 65esima edizione del Festival di Cannes, Oscar al miglior film straniero all’85esima edizione della cerimonia dei Premi Oscar 2013, Amour di Michael Haneke racconta la fine tenera e crudele di un amore che non ha avuto tempo. Una storia semplice di un uomo e una donna, Anne (Emanuelle Riva) e George (Jean-Louis Trintignant), insegnanti ottuagenari di pianoforte, nella cui quieta vita borghese si insinua l’atroce banalità della morte. Dunque sì, una storia semplice ma crudamente umana, disarmante.
Haneke è disarma lo spettatore nel narrare la vicenda linearmente, frontalmente nel contenuto e nello stile. La frontalità e la linearità, perfettamente adatte a raccontare l’umano, sono ribadite fin dall’inizio.
L’amour è stato ed è un sentimento esile, costante, primordiale, indicibile, sempre presente, che si estende fino alle estreme conseguenze. Tensioni latenti, responsabilità, fatalità, il male inafferrabile, il determinismo di questo male, il perturbante distacco (distacco che pare un gesto di pudore per un dolore tanto comune quanto atroce) … tutto ciò, componente dello stile dell’autore, dà alle immagini quella nota distanza brechtiana ma, allo stesso tempo dà alle stesse un raro impatto emotivo. L’empatia tanto temuta in precedenza da Haneke, si rischia e la si raggiunge.
Il primo lungometraggio di Yann Samuell, Amami se hai coraggio (Jeux d’enfantes, 2003), la lunga storia di Julien e Sophie (Guillaume Canet e Marion Cotillard), dall’infanzia all’età adulta. Una dichiarazione d’amore che non sappiamo se arriverà mai, aleggia durante tutta la loro vita, cadenzata dal passaggio di mano di una scatola di caramelle a seconda di chi sia l’ultimo ad aver portato a termine con successo la sfida proposta. Tra pipì nello studio di un preside, torte che volano, atti osceni e molto altro, i due giocano senza risparmiarsi nulla, fino alle nozze di lui, il finale tragico e l’alternativa rassicurante.
Un ritmo sostenuto, surreale. Una regia che fa sognare, fa paura e mantiene nel limbo della dolce o triste attesa. Un film che urla chiaramente “finché c’è gioco e vita, c’è speranza”.