Alain Gomis è uno dei cineasti più rappresentativi del complesso e frastagliato panorama cinematografico dell’Africa sub-sahariana. Nato a Parigi ma con radici in Senegal e nella Guinea Bissau, Gomis è stato notato fin da subito dai maggiori festival di cinema. Il suo film d’esordio, L’Afrance (2002), vinse il Pardo d’argento a Locarno. La sua opera seconda, Andalucia (2008), fu selezionata alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia. Il suo terzo lungometraggio, Tey (Oggi, 2012), era in concorso a Berlino. E alla Berlinale Gomis è tornato con il suo nuovo lavoro, Félicité, sempre in competizione, in gara per l’Orso d’oro.
Se nei primi due testi Gomis ha lavorato su un cinema dell’esilio, della lontananza, della solitudine, sospeso tra l’Europa e l’Africa, con Tey ha iniziato un intenso percorso di ri-avvicinamento girando a Dakar la storia di un giovane uomo che sente di essere giunto al suo ultimo giorno di vita. Ma è con Félicité che il quarantacinquenne regista formatosi in storia dell’arte e del cinema alla Sorbonne di Parigi ha realizzato un deciso passo in avanti nella costruzione di un percorso di maturità filmica. Ambientato a Kinshasa - e portando alla superficie le molteplici difficoltà del vivere in una metropoli devastata dalla carenza di risorse rese filmando le strade, le persone, i mezzi in transito costante e collocando quelle immagini come degli inserti nel corpo della narrazione principale - Félicité è il ritorno a un vero, profondo, non compromesso con gli interessi europei, cinema africano. Se ne respira l’aria in ogni inquadratura, si è insieme alla donna che dà il titolo al film (interpretata da Véro Tshanda Beya, bravissima) in ogni momento del suo errare tra la modesta abitazione, il locale dove canta ammaliando con la sua voce gli astanti, l’ospedale dove è stato ricoverato il figlio in seguito a un incidente stradale, i posti che lei visita chiedendo, inutilmente, soldi necessari all’operazione del ragazzo. Sarà solo Tabu, uno dei frequentatori abituali del bar, ad aiutarla, ad entrare, silenziosamente, con discrezione, nella sua vita e poi, una volta riportato a casa, anche in quella del figlio. Si forma un trio, si assiste alla nascita di una nuova famiglia, decisa a ricominciare e a sfidare gli infiniti ostacoli quotidiani.
Gomis fa coesistere stili differenti, privilegia la camera a mano superbamente per entrare in contatto sussurrato con Félicité e gli altri personaggi, elabora un realismo visionario, inserisce nella storia principale e nei flash urbani altre due narrazioni, né parallele né sovrapposte, semplicemente ulteriori aperture del testo a dimensioni intime da ricevere in tutta la misteriosità che contengono: da una parte scene notturne con Félicité accanto a un fiume, nel quale poi si immerge, dall’altra quelle con un coro che in una stanza prova dei canti. Félicité è questo e molto altro. Un film che ci auguriamo trovi una qualsiasi forma di distribuzione anche in Italia.
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