Con una filmografia composta di un numero ancora abbastanza limitato di titoli, il regista canadese Denis Villeneuve si è già ritagliato uno spazio rilevante nel mondo del cinema. Uno spazio conquistato nel corso dei film grazie a una personale visione delle condizioni di donne e uomini in stato di conflitto e di r/esistenza e dei generi attraverso i quali sono stati narrati tali percorsi. Arrival (in concorso nell’edizione del 2016 alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e nelle sale da giovedì 19 gennaio 2017) è così solo il, temporaneo, punto d’approdo del pensiero d’autore di Villeneuve. Un’opera che riflette sulle tensioni dell’oggi esplorandole ricorrendo alla fantascienza, quella della relazione tra terrestri e alieni in cerca di un contatto, di una comprensione che passa per le forme del linguaggio, della parola, della comunicazione verbale e gestuale - in questo caso avviate dalla linguista universitaria Louise Banks (Amy Adams). Vengono in mente altri film, quelli di Steven Spielberg e Robert Zemeckis che hanno utilizzato il genere andando oltre esso nella rappresentazione di un discorso interiore caratterizzante i personaggi e la loro ricerca più intima. Incontri ravvicinati del terzo tipo e Contact. Ma Arrival non è citazione, è elaborazione di un pre-testo noto per compiere un viaggio originale, aggiungendo un ulteriore punto di vista a questa categoria della fantascienza. E non stupisce che sia Villeneuve il cineasta chiamato a confrontarsi con un classico come Blade Runner, ambientato trent’anni dopo gli eventi del film di Ridley Scott (Blade Runner 2049 è annunciato in uscita nell’autunno 2017).
Ma Denis Villeneuve non è solo Arrival. Dalla metà degli anni Novanta, se escludiamo i cortometraggi, ha realizzato otto lungometraggi che si potranno vedere (per avere una visione completa del suo lavoro e della sua poetica) nell’omaggio che il Museo Nazionale del Cinema di Torino gli dedica da venerdì 13 gennaio 2017 a venerdì 27 gennaio 2017 nella sala tre del cinema Massimo. La personale si chiama, con un bel titolo appropriato alla sua filmografia, “I confini del buio”. Se quattro dei film più recenti di Villeneuve hanno avuto una distribuzione, gli altri sono degli inediti per l’Italia che gli spettatori avranno il piacere di scoprire.
È un film surreale, Un 32 août sur terre, quello con cui il regista canadese esordisce nel 1998, una storia d’amore sul filo dell’assurdo e dei riferimenti alla Nouvelle Vague. Passano due anni ed ecco Maelström, che fin dal titolo definisce l’incubo nel quale sprofonda una donna in seguito all’investimento di un uomo. Tra queste prime due opere e il terzo film, Polytechnique, ispirato al massacro alla scuola di Montréal del 1989 che dà il titolo alla pellicola, passano nove anni. Denis è ormai un autore affermato e conteso dai più prestigiosi festival internazionali. La donna che canta, del 2010, è il suo primo testo distribuito in Italia. Un film che esiste nei contrasti e che racconta una materia incandescente (il titolo originale è Incendies), emotivamente straziante, con una rigorosa messinscena, calibrata in ogni inquadratura. Descrive un viaggio, dal Canada al Medio Oriente (un Libano mai nominato, ma evidente nei riferimenti), con una struttura filmica statica, (im)mobile, dove anche i carrelli, gli zoom, le panoramiche tendono a disegnare le geometrie di uno spazio “fermo”. Basato sull’omonima pièce dell’esule libanese Wajdi Mouawad, è un’opera che si dipana su piani paralleli della memoria per immergersi, tra l’oggi e gli anni Settanta di un paese in guerra, nelle dolorose, insostenibili, necessarie scoperte di due gemelli, Jeanne e Simon, alla morte della madre Nawal. Suddiviso in capitoli, nomi di luoghi e di personaggi, il film è stato girato in Québec e in Giordania e ha in colonna sonora due canzoni dei Radiohead.
Il successivo Prisoners (2013), primo film americano di Villeneuve, è uno dei thriller ad alto tasso di violenza e fisicità esposta al massimo migliori del nuovo millennio e ruota attorno al rapimento di due bambine e all’esplorazione degli interni ed esterni del luogo del crimine. Con Enemy (2013, inedito come i suoi primi tre lavori), tratto dal romanzo dello scrittore portoghese José Saramago, premio Nobel per la letteratura nel 1998, L’uomo duplicato, Villeneuve torna in Canada per girare una variazione sul tema del doppio (un insegnante scopre, vedendo un film, che l’attore è identico a lui) e su un’ossessione che infrange le frontiere tra reale e immaginazione. Infine, prima di Arrival, il quarantanovenne cineasta e sceneggiatore del Québec torna negli Stati Uniti e firma il controverso Sicario (2015), dove un’agente dell’Fbi (Emily Blunt) in missione segreta per catturare un narcotrafficante messicano deve fare i conti con la propria identità nel corso dell’operazione. Ancora una volta, uno stato di conflitto interiore è al centro del cinema di questo cineasta che merita una conoscenza approfondita.
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