Più o meno dieci anni fa ho avuto la fortuna di intervistare Richard Matheson. L’avevo programmata con cura quell’intervista, tanto che dopo un lungo scambio di email fra vari uffici stampa ero riuscito a ottenere l’ok per l’intervista da Matheson in persona. L’impresa era stata titanica tanto da scoraggiare chiunque ma non avevo mollato la presa e mi ritrovai in mano il numero di telefono di Richard Matheson, non di una sua segretaria qualsiasi ma il numero di casa sua perché lui non voleva scocciatura e preferiva farsi una chiacchierata bello comodo, seduto sulla poltrona nel suo salone piuttosto che annoiarsi a rispondere a delle domande scritte e inviategli via posta elettronica. L’importante era che io capissi e parlassi l’inglese in maniera decente. Così in piena notte, contando le nove ore di fuso che separano Roma da Los Angeles, dove era localizzata la poltrona preferita di Richard il quale amava chiacchierare la sera prima di cena e che si sarebbe rivelato un infaticabile e amabile discorritore, insomma, all’alba l’ho chiamato e facemmo l’intervista tanto agognata.
Tra gli aneddoti di una lunga carriera, Matheson mi raccontò di quella volta che incontrò Alfred Hitchcock. Un incontro non certo casuale, era stato infatti scelto da Hitchcock per scrivere la sceneggiature de Gli Uccelli. Matheson si ritrovò faccia a faccia con il maestro del brivido nel suo ufficio presso gli studi della Universal, sempre a Los Angeles. Per un motivo o per l’altro né l’agente di Matheson né quello di Hitchcock riuscirono ad arrivare all’appuntamento e così dopo un quarto d’ora di silenzio in cui Hitchcock non fece altro che fumare il suo sigaro e fissare ostinatamente il suo interlocutore muto, Matheson decise di aprire bocca. Matheson, me lo raccontò ridendoci su (ma credo che a distanza di qurant’anni ancora ci rimuginava sopra), disse: “mi sono buttato fuori a calci nel sedere da quel progetto da solo”. Infatti lo scrittore disse a Hitchcock che secondo lui in quel film gli uccelli non si sarebbero mai dovuti vedere. Dopo qualche attimo Hitchcock rispose dicendo solo “No, no, no, no” accompagnando il suo diniego con l’indice della mano con il quale poi avrebbe indicato la porta al povero, e temporaneamente disoccupato, Richard Matheson che salutò e se ne andò fra le nuvole di fumo del sigaro del regista inglese.
Ecco, Alfred Hitchcock è stato questo, un uomo che ha sempre saputo quello che voleva, che sapeva cosa tirare fuori dal materiale che aveva a disposizione e lo faceva bene come nessun altro. Nel libro Io, Hitchcock. Il maestro del brivido si racconta (Donzelli) è lo stesso Alfred Hitchcock che attraverso un serie di scritti personali, e non, ci rivela l’essenza del suo lavoro. Ma non si tratta di un lavoro autobiografico ne tantomeno di un memoir, lo stesso curatore dell’opera, lo studioso Sidney Gotlieb, ci “avverte” di come questi scritti siano di natura eterogenea, appartenenti a epoche diverse della vita di Hitchcock: andiamo dal publiredazionale a saggi veri e propri, dalle famose introduzioni ai romanzi che gli editori gli chiesero sempre assiduamente (di fatto il nome di Hitchcock affiancato a un titolo diventava una sorta di marchio di garanzia) alle cartelle stampa dei suoi film, e poi interviste, discorsi pubblici e altro ancora. Un libro che non è una collazione di scritti ma una vera e propria antologia letteraria, perché quello che Hitchcock era capace di fare con la penna non era poi così diverso da quello che sapeva fare con la macchina da presa: lui gioca con noi lettori come con i suoi spettatori, insinua e poi tira indietro la mano, suggerisce e poi smentisce, alza i toni e poi ci rimprovera perché abbiamo frainteso tutto.
Alfred Hitchcock è stato un’artista della dissimulazione pura, e come nella vita di ogni grande artista cronaca e finzione, biografia e racconto si mescolano e diventano indistinguibili, è lui stesso a manipolarci e a stuzzicarci di continuo ammiccando a noi, come faceva nei cameo dove appariva sempre nei suoi film, come infatti lui stesso diceva: «Il mio personaggio preferito… sono io!» E come dargli torto, lui che è diventato, consapevolmente, il logo di se stesso con la sua inconfondibile silhouette, un tocco grafico di un contorno che contiene un mondo: quello della paura. Sì, perchè è quel “brivido” che proviamo che ci trascina al cinema a vedere i film, i thriller (questa era la definizione che Hitchcock accettava per i suoi film, l’unica) ci danno quello shock che fa sembrare la nostra vita migliore di quello che pensiamo sia e così non cadiamo in uno stato di inerzia e di insofferenza. Insomma, il cinema per Hitchcock non è un sogno ma deve essere un brusco risveglio, felici di respirare ancora l’aria e soprattutto di essere ancora vivi.
Un libro, lo ripeto, da leggere tutto d’un fiato, come un romanzo, non mancano le curiosità sui suoi film e i suoi colleghi, il tutto con un humor sornione perché la suspense senza il senso dell’umorismo è solo tempo sprecato. Parola del Maestro del brivido.
Buona lettura.
Massimiliano Pistonesi
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