Che se ne sia andato, il 2016. Con il suo carico di lutti. Pesante. Anche per il cinema. Tanti, troppi. Un anno scandito da scomparse di registi, attori, attrici, addetti ai lavori. Alcuni ampiamente trattati dai mezzi d’informazione, altri passati quasi sotto silenzio, o ricordati solo da giornali e riviste più attenti anche ai margini, che poi tali non sono, in questo caso del mondo dell’immagine in movimento. Tra gli addii illustri, ma meno mediatici o, se mediatici, troppo frettolosamente descritti in frasi superficiali, ci sono stati quelli di Andrzej Zulawski, Hector Babenco, Michael Cimino, Abbas Kiarostami. Autori che, nel corso dei decenni più recenti, hanno aperto, con la loro opera, spazi rivoluzionari nella storia del cinema. Cineasti provenienti da paesi ben diversi (Polonia, Brasile, Stati Uniti, Iran) ma appartenenti, con i loro sguardi pregni di curiosità e di ricerca per spingere il cinema verso percorsi innovativi, a quell’unico paese che un autore storico dell’underground e del cinema sperimentale, Stan Brakhage, aveva definito, come meglio non si potrebbe, l’Immagi-Nazione.
Andrzej Zulawski (scomparso il 17 febbraio 2016 a 75 anni) è stato un instancabile indagatore sia delle relazioni sentimentali dense di un erotismo selvaggio sia di una mai doma critica al potere, cercando sempre, come affermava, “ciò che non è visibile all’occhio” perché “è esattamente ciò che fa il cinema”. L’occhio del cinema deve mostrare un altro reale, nascosto tra le righe e nelle pieghe del vedibile. Il regista, nonché prolifico scrittore (ma in Italia sono stati tradotti solo tre suo romanzi) polacco (nato a Leopoli, ora in Ucraina, il 22 novembre 1940) questa ricerca l’ha praticata ossessivamente, e con risultati ogni volta sorprendenti, in ogni istante delle sue opere, quelle girate in Polonia come quelle realizzate in Francia e in Germania. Un percorso coerente che ha originato, dalla fine degli anni Sessanta, un cinema visionario e travolgente, immerso in un movimento continuo, nella follia di set che cambiano e si trasformano sotto una spinta irrazionale e sensuale di gesti e sguardi.
Il suo cinema si avvia nel 1967 e 1968 con due cortometraggi per approdare nel 1971 al lungometraggio con Trzecia czesc nocy (La terza parte della notte), opera manifestamente politica in cui si descrive, con la febbrile frenesia di un racconto metafisico, la lotta contro il potere. Il film seguente, Diabel (Diavolo, 1972), cupa ricostruzione della spartizione della Polonia nel 1793, per le evidenti allusioni all’attualità viene bloccato per diciotto anni dalla censura. Cinema di performances estreme, quello di Zulawski, che continua con L’importante è amare (1974), Na srebrnym globie (Sul globo d’argento, girato nel 1976-’78, poi interrotto dalla censura, terminato nel 1986-’87), Possession (1980), La femme publique (1984), Boris Godunov (1989), La sciamana (1996), i quattro film con Sophie Marceau - Amore balordo (1985), Le mie notti sono più belle dei vostri giorni (1989), La nota blu (1991), La fidélité (2000) - e Cosmos (2015), suo ritorno alla regia dopo quindici anni di silenzio, tratto dall’omonimo capolavoro della letteratura polacca di Witold Gombrowicz. Tutti film che disegnano una filmografia tracciata sull’abisso della vita e della morte.
Hector Babenco (nato il 7 febbraio 1946 e scomparso il 13 luglio 2016 a 70 anni) è stata una delle voci più forti del cinema brasiliano contemporaneo, che il pubblico internazionale conobbe negli anni Ottanta quando, con due film, la sua poetica superò i confini nazionali e sudamericani. Con in filmografia già tre lavori di notevole forza espressiva, tra cui il documentario del 1973 O fabuloso Fittipaldi, dedicato al pilota brasiliano della Formula 1 Emerson Fittipaldi, nel 1981 conquista la meritata visibilità con Pixote - La legge del più debole, ritratto durissimo, di realismo scorticante, della criminalità giovanile a San Paolo e Rio de Janiero. Protagonista, Pixote, ragazzo di strada come tanti coetanei, vissuto tra riformatorio e vagabondaggi, pistola in mano come nel celebre finale. Da notare che Fernando Ramos Da Silva, nel ruolo di Pixote, era un vero baby criminale e che il film non lo salvò (viene in mente, anche se meno tragica, la storia del protagonista di Vito e gli altri, capolavoro nascosto del cinema italiano di Antonio Capuano, bambino di strada a Napoli tornato dopo il film alla sua vita violenta, dentro e fuori il carcere) da un ritorno alla criminalità, rimanendo ucciso nel 1987 in uno scontro a fuoco con la polizia. L’altro lavoro che ha reso celebre Babenco è stato Il bacio della donna ragno (1985), basato sull’omonimo romanzo dello scrittore argentino Manuel Puig, con due straordinarie performances di William Hurt e Raul Julia in un’opera nella quale i personaggi da loro interpretati, un omosessuale e un prigioniero politico, reclusi in una prigione, intessono un profondo legame tra crudeltà della detenzione e potere dell’immaginazione.
Poi, per Babenco arrivano esperienze che lo portano anche negli Stati Uniti (nel 1987 gira Ironweed con Meryl Streep e Jack Nicholson); in seguito si assiste al diradarsi della sua produzione, che comprende pure Carandiru (2003) e Il passato (2007), dove ricompaiono alcuni temi della sua opera, come la detenzione, la malattia, i complessi rapporti interpersonali. Nel 2015 realizza il suo film testamento My Hindu Friend. Un film straziante, autobiografico (con Willem Dafoe alter ego del regista in una interpretazione talmente intensa da essere a tratti insostenibile), colmo di morte e al tempo stesso di amore per la vita e per il cinema.
Un cinema di ricerca di tutt’altra forma è stato praticato da Michael Cimino (scomparso il 2 luglio 2016 a 77 anni a Los Angeles, era nato a New York il 3 febbraio 1939). Non è stato solo il regista del film premio Oscar Il cacciatore (1978), ma un cineasta talmente radicale e indipendente, all’interno dell’infernale macchina cinematografica hollywoodiana, da riuscire a girare un numero limitato di film in quarant’anni di carriera. Il suo ultimo capolavoro - se si eccettua il segmento realizzato per il film collettivo Chacun son cinéma (2007) -, Verso il sole, viaggio verso la morte e la rinascita altrove, nel territorio spirituale dei nativi d’America, risale al 1996. Ma se c’è un film emblematico del pensiero sfarzoso, monumentale, davvero sperimentale, di Cimino questo è I cancelli del cielo (1981), divenuto il suo testo maledetto, e uno dei più maledetti di tutta la storia del cinema. Fu reso tale dalle vicissitudini produttive (il fallimento della United Artists) e distributive (i tagli e i nuovi montaggi per l’uscita nel 1981). Cimino portò sullo schermo una storia ambientata in Wyoming verso la fine dell’Ottocento, una sfida western tra i grandi e potenti allevatori della zona e gli immigrati dall’Europa dell’Est che reclamano la terra a loro promessa. A distanza di anni, nel 2012 Cimino supervisionò il lavoro di restauro riportando finalmente I cancelli del cielo alla sua maestosità originaria nella versione di 216 minuti, distribuita nel 2016 anche in alcune selezionate sale italiane.
Impossibile sintetizzare in poche righe la filmografia Abbas Kiarostami (nato a Teheran il 22 giugno 1940 e scomparso a Parigi il 4 luglio 2016 a 76 anni). È stato il cineasta iraniano che, più di ogni altro, a partire dagli anni Novanta quando la nouvelle vague di quel paese conquistò il mondo (si pensi anche a autori del calibro di Mohsen Makhmalbaf e Amir Naderi che hanno avviato la loro opera in Iran per poi proseguirla altrove, come in parte ha fatto Kiarostami), ha rappresentato quella cinematografia, conquistando riconoscimenti ovunque. Un cinema, il suo, lungo quasi cinquant’anni, inscritto nel neorealismo di matrice rosselliniana (fin da Dov’è la casa del mio amico?, 1987), quindi attratto dalle possibilità di espressione introdotte dal video e dal digitale, e dal viaggio, interno ai paesaggi dell’Iran o in Italia (Copia conforme, 2010) e Giappone (Qualcuno da amare, 2012), vero e proprio segno distintivo della sua poetica. Ha vinto la palma d’oro al festival di Cannes nel 1997 con Il sapore della ciliegia e ha lavorato fino all’ultimo, tornando con il cortometraggio dal titolo significativo Take Me Home (2016) alle sue origini, dalla passione per la fotografia e per il bianco e nero.
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