Che cosa sappiamo davvero del cinema asiatico? Di quello cinese, giapponese, di Taiwan e Hong Kong? E di quello sudcoreano? E, allargando la geografia, di quello del Sud-Est asiatico: di Thailandia, Filippine, Malesia e Indonesia, Cambogia e Vietnam, e del Laos? Quasi nulla sappiamo davvero. Conosciamo i film dei registi diventati celebri, assidui frequentatori dei festival internazionali, sovente premiati, saltuariamente distribuiti nelle sale italiane. Conosciamo le opere dei cinesi Chen Kaige e Jia Zhang-ke, dei giapponesi Kitano Takeshi e Kore-eda Hirokazu, del taiwanese Tsai Ming-liang, dei cinesi ex hongkonghesi John Woo, Johnny To, Takashi Miike. Del sudcoreano Kim Ki-duk. Del thailandese Apichatpong Weerasethakul, del filippino Lav Diaz, del cambogiano Rithy Panh. E poco altro. Soprattutto conosciamo poco del cinema popolare pensato, prodotto, realizzato in quei paesi. Ma in Italia c'è un festival che si è specializzato su questo argomento e che da diciannove anni si dedica alla diffusione di quel cinema. Un festival che è diventato un punto di riferimento per spettatori e addetti ai lavori non solo italiani. Si svolge a Udine, si chiama Far East Film Festival (FEFF), è nato nel 1999 ed è organizzato dal locale Centro Espressioni Cinematografiche.
La diciannovesima edizione (21-29 aprile 2017), all'interno di un calendario comprendente 83 titoli, denso di proiezioni e eventi, tra retrospettive, novità assolute (quattro film sono in anteprima mondiale) e ospiti di richiamo, si segnala, sopra tutto e al di là della qualità stessa del lavoro in questione (perché Far East vuole anche essere vetrina ampia di testi altrimenti di ardua reperibilità), per la presenza - per la prima volta nella storia del festival - di un lungometraggio proveniente dal Laos. Secondo film della cineasta Mattie Do, e decimo della storia cinematografica del Laos, Dearest Sister (Nong Hak, 2016) parte come un dramma sociale (per dare soldi alla propria famiglia una ragazza accetta di lasciare il villaggio e andare a lavorare in città per un anno con il compito di accudire la cugina Ana che non ha mai conosciuto) per trasformarsi in un thriller-horror. Infatti, Ana, sposata con un estone (una scelta così esotica nasce forse dal fatto che l'Estonia sia co-produttrice del film?...), soffre di disturbi psichici, si auto-punisce, è preda di allucinazioni (rese ricorrendo a distorsioni visive per nulla funzionali), sta per diventare cieca, ma grazie a quell'handicap riesce a vedere i morti.
Udine permette di scoprire film fuori dal comune. Come Tam Cam: The Untold Story (2016), opera seconda della regista vietnamita Ngo Thanh Van, sfarzosa favola fantasy, testimonianza di un'ambiziosa produzione commerciale, ambientata in un regno del passato dove il re sta morendo e al giovane figlio principe serve una sposa (che ha già individuato nella fanciulla povera maltrattata dalla sorellastra e dalla matrigna). Come Someone To Talk To (2016) di Liu Yulin e il campione d'incassi in patria I Am Not Madame Bovary (2016) di Feng Xiaogang (anche noto scrittore), entrambi cinesi, rispettivamente un dramma sentimentale sulla solitudine, l'incomunicabilità e la perdita dei sogni e la storia di una donna in lotta per ottenere giustizia dopo essere stata truffata dall'ex marito. Come la commedia, con toni demenziali, Mercury Is Mine (2016) del filippino Jason Paul Laxamana, dove si narra la lenta complicità che si instaura fra Carmen, proprietaria di una locanda poco frequentata, nonostante si trovi sulla strada che porta a un castello visitato da turisti in cerca di tesori, e il sedicenne Mercury, tornato dagli Stati Uniti e senza giaciglio dopo avere litigato con il fratello, che trova riparo nel piccolo ristorante. Con le sue maniere, Mercury attrae nuovi clienti, e piace a donne e uomini. Lo suggerisce il titolo, tutte/i lo vogliono...
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