Inizia il Sei Nazioni (dal 4 febbraio al 18 marzo 2017). È l’appuntamento imperdibile per gli appassionati di rugby. Sport che il cinema ha raccontato con parsimonia, ma regalando talvolta autentici capolavori. Film che, realizzati con punti di vista molto diversi, portano in primo piano come meglio non si potrebbe l’intensità di uno sport che, da sempre, è segno di rispetto, lealtà, nonostante la durezza degli scontri sul terreno di gioco.
Risale al 2009 Invictus di Clint Eastwood. Ovvero il ritorno in Africa, nel Sudafrica appena uscito dal regime dell’apartheid e all’alba di una nuova nazione tutta da costruire, del regista e attore americano. Per trovare, in quel luogo lontano dall’America, sinceri valori patriottici da raccontare nella più pura tradizione del cinema hollywoodiano classico che, con toni epici, descrive la biografia di una persona e di un popolo. Lo fa, Eastwood, con quello che è uno dei suoi film più spettacolari. Prologo nel 1990, con una scena magnifica che dice tutto di quel Sudafrica: da una parte un campo di rugby solo con giocatori bianchi, dall’altra un campo di calcio solo con calciatori neri, e in mezzo una strada, a dividere quei due mondi. Ma ancora per poco. Perché Nelson Mandela è appena stato liberato dopo 27 anni passati in una minuscola cella del carcere di Robben Island e la folla invade festante quella strada. Quindi climax crescente, montato con momenti d’intimità nei quali Eastwood dà, come in tutta la sua opera, il meglio di sé. Fino a quella che non è stata solo la finale di un campionato mondiale (nel 1995, tra Sudafrica e All Blacks), ma un evento politico fortemente voluto da Mandela per riunificare il paese.
Il cuore nero, e meticcio, di Eastwood batte ancora una volta. E nonostante qualche orpello eccessivo (si pensi all’uso del sonoro, spesso ad effetto, come nelle scene decisive della finale) s’immerge con occhio sensibile in un episodio di storia contemporanea. Insieme a un Morgan Freeman, nel ruolo di “Madiba”, in stato di grazia e a Matt Damon, nei panni del capitano della nazionale sudafricana Francois Pienaar.
Dal Sudafrica a Napoli. Per un film italiano raro, indipendente nel senso più sano del termine, presentato nel 2003 al Torino Film Festival nel concorso internazionale lungometraggi (dove ricevette una menzione, ex-aequo, per la sceneggiatura). Si tratta de I cinghiali di Portici, opera prima di Diego Olivares ambientata in una comunità di recupero per “minori a rischio” che si affaccia sul mare, dove il rugby è usato come terapia per dare un senso alla vita di quei ragazzi, aggregandoli in una nuova esperienza collettiva. Su questi due elementi, continuamente intrecciati, si sviluppa un film che porta in primo piano il disagio giovanile e lo sport, e non casualmente uno sport non individualistico come il rugby, con leggerezza e sensibilità narrativa e visiva, con un gruppo d’interpreti non professionisti di intensa verità espressiva e di un solido attore professionista, Ninni Bruschetta, nel ruolo di Ciro, capo della comunità e ex giocatore di rugby, cui viene l’idea di far giocare i ragazzi a quello sport e di mettere in campo una squadra da iscrivere, magari per un solo anno, al campionato.
Per Olivares, I cinghiali di Portici “è una piccola storia di sport o, almeno, di vite vissute ‘sportivamente’, in un luogo che non appartiene a nessuno, che si abita senza riconoscere come proprio e con il quale spesso si stabilisce una relazione di intimo e orgoglioso rifiuto… Dove il mare è diventato nero e non illumina più il nostro sguardo, dove la sabbia è sporca e i treni passano in continuazione ma non si fermano mai; in un posto così, forse, non resta molto altro da fare che mettersi a giocare…”.
Incalzati da Ciro, portatore di un romanticismo ‘fuori tempo’, di una dolce e tenace determinazione, i ragazzi inizieranno un lavoro quotidiano inatteso e sceglieranno di chiamare la loro squadra “I cinghiali di Portici”. Come quegli animali che allevano nella comunità e sui quali Olivares posa il suo occhio sensibile, come anche sugli struzzi, in alcuni sublimi istanti di pura flagranza filmica.
Con un salto indietro nel tempo, eccoci nel 1963, nel pieno del Free Cinema inglese. Uno dei maggiori esponenti della nuova onda d’oltre Manica è Lindsay Anderson. Suo è Io sono un campione (This Sporting Life), tratto dal romanzo omonimo di David Storey. Come giustamente sottolinea il regista di If…, Io sono un campione “non è un film sullo sport”, bensì sui comportamenti di un uomo, Frank Machin (magistralmente interpretato da Richard Harris), ex minatore, giocatore di rugby, nauseato dall’ipocrisia sociale che, sotto l’effetto dell’anestesia, rivive momenti della propria vita mentre un dentista lo sta operando a seguito di un duro colpo al mento ricevuto durante una partita. Deluso dalle esperienze, emarginato, Frank tornerà su un campo di rugby, deciso a iniziare una nuova partita, non solo sportiva.
Rientrando nel nuovo millennio, incontriamo Forever Strong (2008) del regista canadese Ryan Little (disponibile in streaming gratis senza registrazione su PopcornTv), ispirato alla figura di Larry Gelwix, allenatore della squadra di rugby Highlands e quasi mai sconfitto nella sua lunga carriera. Forever Strong è un romanzo di formazione che descrive, attraverso il rugby, la crescita di un ragazzo, Rick Penning (Sean Faris). Capitano della squadra allenata dal padre, finisce in riformatorio per avere guidato ubriaco. Costretto a giocare con la squadra rivale guidata da Larry (Gary Cole), Rick affronta una dura esperienza fatta di sacrifici ma anche di nuove relazioni umane.
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