Al festival di Berlino l’immagine non parla solo attraverso il grande schermo. La si può incontrare in tutta la sua potenza poetica e politica collocata in altri spazi. La sezione Forum Expanded, come si evidenzia dal titolo, ospita sia film sia installazioni. Fra queste, merita un’attenzione speciale The Law of the Pursuer per diversi motivi. L’attualità che essa contiene. Il progetto che la definisce, come tappa di un work in progress. L’originalità dell’approccio da parte di un regista, di un artista, l’israeliano Amos Gitai, che ha costruito tutta la sua monumentale opera sul rigore estetico e la passione militante per indagare la storia, la memoria, le responsabilità di Israele e la stratificata questione mediorientale. Negli ultimi anni, l’attenzione di Gitai si è focalizzata su un episodio chiave della recente storia del suo paese: l’omicidio del primo ministro Yitzhak Rabin il 4 novembre 1995 a Tel Aviv da parte di un colono ebreo estremista. Gitai ha esplorato questo fatto con lo stile che lo definisce, lavorando in maniera creativa sui materiali d’archivio e sulla finzione, intessendo i fili di una ragnatela composta di film, teatro, installazioni. In tal senso si tratta di un work in progress, da modificare e ingrandire, senza mai voler essere definitivo. Tra i capitoli dedicati all’assassinio di Rabin c’è il lungometraggio Rabin, the Last Day (2015), presentato in concorso alla Mostra di Venezia e, a differenza di altri titoli di Gitai, per ora non distribuito in Italia. The Law of the Pursuer è quindi un ulteriore tassello che va a incastrarsi in un lavoro multimediale di ricerca e che contiene immagini inedite provenienti dall’archivio del regista e raccolte nel corso degli ultimi vent’anni. La video installazione permette allo spettatore/visitatore di interrogarsi sul concetto di democrazia, estremismo, crisi della politica.
Tra i film reperibili in Italia in dvd, per chi non conoscesse l’opera di Gitai (avviata negli anni Settanta), costruita come si trattasse di un infinito inventario, e fosse curioso di approfondirla, anche in minima parte, c’è Free zone (2005), sguardo emozionante e politico su tre donne e sui territori mediorientali minati da una costante tensione, dalla paura, dal sospetto, dai confini blindati a ogni checkpoint. Sono tre donne in viaggio e in fuga in quei territori: una statunitense, Rebecca (Natalie Portman), un’israeliana, Hanna (Hanna Laslo, Palma d’oro per la migliore attrice al festival di Cannes 2005, ma tutte e tre le interpreti andavano premiate), una palestinese, Leila (Hiam Abbas).
Imperdibile è Kippur (2000), uno dei capolavori di Gitai, immerso nel fango di una (qualsiasi) guerra, nella fatica del procedere, nello sfinimento tanto dei soldati quanto dei carri armati e degli elicotteri in una giornata espansa che sembra non avere fine. Del 2011 è Lullaby To My Father, ovvero la storia del padre di Gitai, Munio Weinraub, architetto formatosi alla scuola del Bauhaus. E per scoprire due film realizzati negli anni Ottanta dal regista, e un suo sconfinamento dal Medio Oriente, ecco Bangkok Bahrein (1984), ovvero l’industria del sesso nella capitale thailandese e la vita e le baracche dei lavoratori asiatici a Manama in contrasto con il lusso delle case dei padroni, e Ananas (1984), viaggio da San Francisco alle Hawaii alle Filippine per documentare la produzione del frutto tropicale tra sfruttamento degli operai e manipolazione della crescita con gli additivi.
Ovunque, in ogni film, anche quelli apparentemente più distanti per via degli argomenti trattati, si assiste a un cinema dello sradicamento, dell'esodo e del nomadismo dove convivono corpi anonimi e la famiglia di Gitai, nomi noti legati alla storia e alla politica d'Israele e attori, attrici e registi (da Vittorio Mezzogiorno a Hanna Schygulla, da Samuel Fuller a Bernardo Bertolucci) che con le loro presenze ribadiscono l'idea di un percorso sperimentale, apolide, non riconciliato.
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