La sterminata “carriera alla John Houston” di Steven Soderbergh, come lui stesso la definisce, prolifica e senza mai un momento di pausa, è cominciata sotto il segno di un successo forse irripetibile come Sesso, bugie e videotape, ma ha assunto nel corso degli anni forme sempre diverse, a dimostrazione di una capacità mimetica del regista americano assolutamente eccezionale. Dopo essere tornato al cinema nel solco di uno dei generi che lo ha reso maggiormente famoso, quello degli “heist movies” alla Ocean’s, e dopo la stravagante incursione televisiva con Mosaic, una serie fruibile tramite applicazione per cellulare, adesso Soderbergh torna al cinema con un thriller psicologico a tinte horror girato interamente con un iPhone. Ma ciò che potrebbe sembrare una curiosità o un dettaglio di poco conto è, in realtà, una decisione assolutamente non scontata, se si parla di un cineasta che ha fatto della ricerca stilistica (come in Torbidi ossessioni) e della sperimentazione visiva i marchi di fabbrica del suo cinema. Così Soderbergh sfrutta le piccole dimensioni del suo dispositivo per studiare le inquadrature più inusuali, posizionando l’iPhone all’interno di un lavandino o nascondendolo dietro alcune cornici poggiate su di una scrivania, a coprire i personaggi che dialogano in scena.
Unsane: la trama
Dopo essere fuggita da Boston per allontanarsi dalla minaccia sempre incombente di uno stalker, Sawyer Valentini, giovane donna in carriera, fatica a riprendere in mano la sua vita, ormai segnata da un sentimento quasi patologico di ansia e sospetto verso il prossimo. Sawyer, la protagonista del nuovo Unsane di Steven Soderbergh, si rivolge quindi ad una clinica psichiatrica. In questa struttura, apparentemente così accogliente e professionale, la terapista che la visita riesce a raggirarla, facendole firmare un “ricovero spontaneo” (ma in realtà forzato) per 24 ore, che diventeranno sei giorni a causa delle preoccupanti valutazioni degli infermieri del reparto sul suo stato di salute mentale. Sawyer entrerà in contatto con altri pazienti come lei, affetti dai disturbi più disparati e con storie molto diverse fra loro alle spalle, ma si convincerà anche di essere stata seguita all’interno della struttura proprio dallo stalker da cui cercava di scappare. Si tratta di una storia di ossessione ed ambiguità perfetta per il cinema di Steven Soderbergh, uno di quei registi mai davvero in grado di allontanarsi dal proprio lavoro, neanche per qualche mese, e in questi ultimi due anni più attivo che mai, dopo aver smentito il suo (poco credibile) ritiro dalle scene.
Unsane: la regia di Steven Soderbergh
A differenza quindi di quanto ci si potrebbe inizialmente aspettare, la scelta di utilizzare un cellulare come macchina da presa non deriva dalla necessità di creare tensione attraverso movimento bruschi e destabilizzanti (come avviene, ad esempio, negli horror found-footage), bensì da quella di riprendere i volti dei suoi protagonisti sempre da vicino e dalle angolazioni meno probabili. L’impressione che si ha vedendo Unsane è quella di star vedendo un film girato da Ingmar Bergman, con la sua ossessione per i primi piani e per le inquadrature molto ravvicinate. Ma Soderbergh utilizza invece questa cifra stilistica non per un dramma da camera, bensì per un film che segue pedissequamente i cliché e i codici del suo genere di riferimento (il thriller).
L’aderenza ad un genere che fa della linearità e della rigidezza narrativa i suoi punti di forza serve anche al regista americano per smussare quelli che, da sempre, sono gli spigoli del suo cinema, come l’ampollosità di certi dialoghi e la tendenza verso digressioni che spezzano il ritmo del racconto. Anche la freddezza con cui di solito osserva le storie che racconta che, in alcuni casi, ha come conseguenza il mancato coinvolgimento dello spettatore, in questo caso sembra una scelta coerente e voluta. Perché la violenza fisica e psicologica che Soderbergh mette in scena con crudele maestria e professionalità, è quasi sempre accompagnata anche da una massiccia dose di ironia. I funzionari della struttura nella quale viene rinchiusa Claire Foy contro la sua volontà sono macchiettistici e caricaturali, quasi a ricordare i personaggi di certi film dei fratelli Coen: dai poliziotti che si muovono dalla centrale solo se c’è la promessa di una tazza di caffè gratis, al dottore che chiude le sue frasi sempre con la stessa espressione (“Non finisce qui”).
L’intuizione che rende Unsane comunque differente da tanti lungometraggi similari è quella di intraprendere una sfida con lo spettatore, spingendo chi guarda a porsi delle domande e a fare i conti con la necessità di prendere necessariamente una posizione rispetto al racconto: credere alla presunta vittima degli abusi pur considerando il suo stato di lucidità, spesso compromesso, o al presunto aguzzino, apparentemente così tranquillo e cordiale? Il film risolverà uno dei suoi misteri principali dopo circa quaranta minuti, per poi catapultare il pubblico in un turbinio di avvenimenti e colpi di scena che, pur non brillando per originalità, sono incasellati nella storia con la bravura propria di un veterano attivo da decenni nel mondo dell’intrattenimento (che, al netto delle sue esperienze più art-house, è sempre stato lo scopo ultimo dei lavori di Steven Soderbergh).
Unsane: un film di indubbia creatività
Sarebbe facile, a posteriori, fare riferimento agli ultimi scandali hollywoodiani e alle tante donne vittime di violenza che negli ultimi mesi hanno rotto il silenzio in un clima di diffidenza verso le loro “confessioni”, così distanti nel tempo dai fatti oggetto di denuncia. Eppure il messaggio di Unsane sembra essere proprio quello: fidarsi delle vittime (anche se presunte) è sempre meglio che fidarsi di un presunto colpevole. Così questo film così compatto, dove ogni ingranaggio è al posto giusto, è solo apparentemente una operazione veloce e dalle modeste ambizioni. Come sempre avviene nel cinema di Soderbergh, invece, ogni aspetto di questo nuovo lavoro (dalla scelta della cinepresa ai massicci interventi di color-correction in post produzione) risponde a precise esigenze creative. Quelle stesse esigenze che guidano da anni il suo cinema, con risultanti a volte altalenanti, ma accomunati da un elemento di fondo comune: la volontà di provare cose nuove e di rompere gli schemi. Anche, paradossalmente, nei film (come Unsane) che sembrano seguire regole ampiamente riconosciute ed accettate.
Voto: 8
Fonte foto: facebook.com/pg/TwentiethCenturyFoxItaly/
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