Non è, come si potrebbe credere, la parte degradata di Napoli ad essere scenario di “Robinù” (2016), il documentario del giornalista Michele Santoro, che ha debuttato alla regia con questo lavoro a metà tra narrazione e inchiesta. Al contrario, le vite dei baby boss svezzati dalla camorra – fenomeno arrivato all’apice negli ultimi due anni – si svolgono nella metà oscura delle periferie partenopee più amate dai turisti. Luoghi che hanno fatto da set al film di Santoro e che di giorno sono animati dai visitatori e di notte mostrano il loro volto oscuro diventando teatro di scontri a fuoco dove le vittime sul campo non arrivano ai vent’anni. Tra il 2014 e il 20216 Napoli ha ospitato una vera e propria guerra urbana tra bande di adolescenti a colpi di kalashnikov, lasciando dietro di sé quasi 80 giovani morti. Santoro, che ha scritto il docufilm con Maddalena Oliva e Micaela Farrocco, è entrato nel carcere di Poggioreale per parlare con loro e raccogliere i loro racconti fatti di rassegnazione e disperato senso di impunità, ma ha anche girato nella zona d’ombra di quartieri come Forcella, Decumani, Tribunali e Porta Capuana. Qui è ambientata la tremenda “paranza dei bambini”, che diventano killer esperti, spacciatori e vittime sacrificali della missione a loro assegnata senza vie di scampo dalla famiglia. E sono soldati arruolati dalla stessa Napoli, con il motto “tu sei il quartiere”, un destino segnato da cui non si può fuggire. “Robinù” è stato presentato fuori concorso alla 73esima Mostra del cinema di Venezia.
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