Corre l’anno 1969 quando Federico Fellini mette a segno l’ennesimo colpo grosso della sua cinematografia, il “Satyricon”. La pellicola attinge alla letteratura latina ed è il liberissimo adattamento dell’omonima opera di Petronio, della quale Fellini stravolge il plot narrativo ma ripropone il ritratto delirante ma nondimeno realistico della Roma neroniana.
Una Roma che Fellini ricostruisce sul set con una scenografia buia, sagace metafora dei tempi di precarietà politica che attraversava la città: non a caso nel film si assiste al suicidio di un imperatore braccato dalla flotta romana e a quello di due coniugi patrizi facenti probabilmente parte del suo entourage.
Altro tratto somatico della Roma imperiale è la folla festante di liberti, attori, poeti e sedicenti maghe, unici deliranti sprazzi di colore nel buio dell’Urbe che animano i vicoli e il volgare banchetto del liberto Trimalcione. Nei loro lazzi popolareschi in accento partenopeo perfino le formule in latino e in greco suonano vive e attuali, quasi coeve.
Ed è proprio attorno alla tavolata di Trimalcione che si solleva un’altra, sempiterna questione, quella della condizione di sottoproletariato dell’arte, che nel film esplode nel diverbio fra un Eumolpo ricoperto di stracci ma anche di autentica vocazione poetica e Trimalcione, tanto ricco da aver perso il conto delle proprie ricchezze ma che invece del titolo di “poeta” si appropria indebitamente. Altrettanto letterati e spiantati sono i giovani letterati Encolpio e Ascilto, che di questa società decadente sono prodotto e vittime ridotte al vagabondaggio. Vagabondaggio che porta i protagonisti a battere terre anche lontane, ad amalgamarsi con altre culture e al sollazzarsi con schiave di colore.
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